Lo spunto per la riflessione di oggi ci arriva da Luigi (nome di fantasia) che mi scrive una lunga mail nella quale evidenzia le sue paure. Luigi lavora in una nota azienda della nostra città. Azienda che purtroppo sta attraversando una crisi profonda. Il nostro amico teme di “non essere abbastanza forte” per affrontare lo stress di questa situazione. Ha paura di non essere “più capace” di reinventarsi per garantire alla famiglia ciò di cui necessita. Di conseguenza, purtroppo, Luigi non è felice. Nella sincera speranza che l’azienda di Luigi si riprenda e tutto si risolva per il meglio, ho pensato di approfondire pubblicamente la questione perché ritengo che le paure espresse dal nostro concittadino siano paure abbondantemente radicate nel nostro territorio. Paure che, anche per colpa della crisi, sono dentro ognuno di noi. Chi più chi meno, tutti leghiamo un po’ della nostra autostima e la nostra felicità ai successi (o agli insuccessi) che otteniamo a livello professionale. Come potrebbe essere altrimenti se la solidità della nostra società è fondata sulla tenuta del sistema economico, a sua volta basata sull’incremento del PIL e sul salire e scendere di freddi indici matematici che dovrebbero dirci lo stato di salute della nostra economia? La quantità di ciò che viene prodotto e venduto (comprese le vendite di antifurti, di medicinali e di armi) è ciò che decide se siamo un paese in salute e in crescita o se siamo un paese ammalato e in recessione. La quantità, e non la qualità. Ne deriva che stiamo bene se ci circondiamo di tante cose, spesso fatte in serie senza troppa cura dei materiali, dell’ambiente, delle persone che le useranno, di quelle che le hanno fatte e del loro talento.
Fino a qualche anno fa, nessuno si poneva il problema perché praticamente tutti potevano ambire ad un posto di lavoro da dipendente, magari poco eccitante, ma piuttosto sicuro. Ne sono derivate generazioni di persone con una certa stabilità economica, ma spesso incapaci di trovare senso alla vita. Da bambini, sulla base di cosa abbiamo scelto il nostro percorso di studi? Come ci siamo scelti il lavoro che facciamo o ci piacerebbe fare? Abbiamo mai veramente scelto almeno una di queste cose? Se sì, in base a cosa? In base ai nostri talenti ed al piacere che ci deriva dal coltivarli? O sono state scelte dettate da una moda, dalla convenienza economica, dalla tradizione familiare, dal prestigio sociale? Magari da una raccomandazione?
Ora le nuove generazioni non hanno più nemmeno l’illusione di un simile percorso. Ciò vuol dire maggiore insicurezza, vuol dire minori possibilità lavorative tradizionali, minore disponibilità economica. Ma, se i padri “vanno in crisi” perché incapaci di trovare un nuovo senso a tutto ciò, i figli cambiano. Si adattano. In questi anni aumentano le iscrizioni agli istituti agrari ed alberghieri, aumenta la frequentazione di corsi di artigianato, i giovani ed anche i meno giovani imparano a cucire, a fare le scarpe, a decorare le unghie, imparano a produrre cose nuove. Ieri i giovani sognavano il posto fisso in un banca che consentisse loro vacanze esotiche, oggi sognano di gestire un piccolo agriturismo.
Ci auguriamo che la crisi finisca presto. Ma che almeno ci lasci una riflessione sui nostri errori e serva a riscoprire e coltivare anche i nostri talenti per non sentirci “completamente perduti”. Iniziamo a valorizzarne almeno uno e, in un circolo virtuoso, saremo anche più in grado di cogliere e valorizzare quelli altrui.
Auguri di Buone Feste a Tutti i cacciatori del proprio talento!