Domenica 22 Dicembre 2024

Le radici virili del femminicidio

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Care ragazze, future compagne di vita dei nostri figli e – spero – nipoti, ho letto con grande interesse e, lo confesso, un tantino di sconcerto, la densa lettera che avete voluto inviare a noi madri, così ricca di suggestioni psicoanalitiche,  antropologiche e filosofiche che inizialmente mi ha intimorita, al punto che mi sono chiesta se impegnarmi – da madre – in una risposta sensata – non comportasse il rischio di trascinare una riflessione così carica di elementi vissuti, quasi incisi nella carne delle nostre relazioni, nel solito scambio di più o meno ovvie considerazioni in materia, già ben nota e dibattuta. Noto che per esprimere il vostro pensiero vi affidate a una voce maschile: in questo naturalmente non c’è nulla di sbagliato, a tutti  noi è dato di poter almeno tentare di avvicinarsi all’altro cercando di interpretarne il sentimento profondo delle cose; tuttavia non posso evitare di osservare che l’interpretazione maschile di quell’altro da sé primario ed essenziale che è il femminile – e il femminile “materno” in particolare –  risente inevitabilmente di una serie di fattori culturali e storici che propendono tutti, per forza di cose, da una sola parte, quella vincente nella storia rappresentata dal virile.

Il materno infatti è tutt’altro che “naturale” o “istintivo”: come tutte le realtà umane esso è il frutto di un lungo e stratificato processo che si è svolto, da molti millenni a questa parte, sotto le insegne vittoriose del potere, della forza, della dominazione virile sul mondo. Dunque le madri sono state e sono tali, all’interno di un preciso sistema simbolico, in cui la presunta capacità o incapacità femminile di generare un figlio maschio di esclusiva proprietà del padre maschio adulto dominante, e quasi sua continuazione, è stata per milioni di donne nei secoli, e in molte parti del mondo lo è ancora, una vera e propria sentenza favorevole o sfavorevole: se generi un maschio vali qualcosa, la tua vita su questa terra ha un senso e sei “utile” all’uomo che “ti mantiene”; altrimenti sei una fabbrica di inutili femmine, un contenitore vuoto che usurpa la vita stessa venendo meno al suo ruolo. Voi pensate che si tratti di una visione esagerata, a tinte troppo fosche, di una realtà peraltro ormai lontana nel tempo? Vi assicuro che una buona e salutare lettura della nostra storia vi dimostrerebbe facilmente il contrario, come pure sarebbe utile uno sguardo privo di pregiudizi, tanto negativi che positivi, sulle cosiddette culture “altre” all’interno delle quali questo sistema è tutt’altro che superato o scomparso. E, del resto, a chi di noi adulti non è capitato di partecipare a qualche bel matrimonio al termine del quale si è brindato augurando agli sposi (alla sposa!) “figli maschi”? Se avete cinquant’anni o giù di lì vi è sicuramente capitato…e come pensate che si sentisse, per esempio, una bambina presente a questo, per lei umiliante, augurio?

Dunque il piccolo idolo della casa, il futuro padrone e capo della famiglia nasce già con un vantaggio tale da rendere inutile giocare la partita con lui a qualunque sorella o altra rappresentante femminile della stirpe. Che sia nato in una casa reale o nella capanna di un contadino, su di lui si gioca per secoli il valore stesso dell’esistenza materna, ed è precisamente qui che risiedono le radici malate di quell’atteggiamento adorante di alcune madri nei confronti dei loro figli, dei tanti privilegi grandi e piccoli loro concessi, magari anche inconsciamente, e delle gravi se non mortali discriminazioni perpetrate a danno delle figlie, come quelle alimentari. Noi infatti non siamo steli d’erba spuntati nel deserto, ma veniamo da una lunga e ininterrotta catena di atteggiamenti, credenze, convinzioni culturali avallate dal costume, dalla morale e dalla religione che, seppure fortemente e giustamente messi in discussione negli ultimi cinquant’anni, almeno nel nostro mondo, hanno però radici molto robuste e intricate.

Ma veniamo all’oggi, apparentemente liberato sessualmente, caratterizzato da un ribaltamento di ruoli e soprattutto di identità perfino rischioso, sotto certi aspetti, e certamente portatore di confusione e perdita di sicurezza per molti, uomini e donne. Il femminicidio si staglia come un’ombra nera sullo sfondo della nostra vera o presunta libertà di scelta. Una cosa però è chiara: malgrado tutte le innegabili contraddizioni, almeno la possibilità di esercitare un potere di scelta rispetto alla propria vita le donne se la sono faticosamente guadagnata. Naturalmente questo non può non scontrarsi con la forza di un sistema simbolico appena scalfito dal femminismo: il vero problema non sta infatti nel materno troppo avvolgente, possessivo, adorante, soffocante, grembo mai colmo del proprio frutto al punto da non volerlo mai espellere del tutto da sé e determinato a sbarrare il passo al padre “liberatore” (ma ne siamo proprio sicuri? Quanti padri hanno imposto e impongono ai figli la loro legge, i loro desideri e visioni del mondo? Forse che essi non desiderano realizzarsi attraverso i loro figli, soprattutto se maschi? Possibile che solo le madri vogliano e possano fare tutto ciò?). Questa grottesca immagine del materno è espressione anche di un certo vittimismo maschile di comodo sviluppatosi negli ultimi decenni in coincidenza proprio con i tentativi femminili di esercitare quel potere di scelta che spaventa, anzi terrorizza forse non tutti gli uomini, ma molti senz’altro. Il vero grande problema sta nella difficoltà evidente che molti uomini sperimentano nel confrontarsi con la propria immagine di sé, con la propria sessualità e soprattutto con un’idea di relazione fondata sul possesso, sull’affermazione prepotente dei propri desideri, sulla necessità interiore avvertita come impellente di affermarsi come coloro che vengono “prima” di tutto, coloro ai quali con le buone o, se necessario, con la forza, occorre arrendersi, mettendo in secondo piano tutti i bisogni, i desideri e le aspirazioni che non coincidano con le loro.  Il problema è paradossalmente aggravato dal fatto che tali pretese maschili non sono più del tutto legittimate dalla morale e dalla cultura contemporanee, per cui “esplodono” letteralmente nella violenza o, in alternativa, strisciano subdolamente nella sottocultura pornografica e nel consumo sessuale indiscriminato dove i corpi umani – femminili e infantili –  sono oggetti in vendita e nient’altro.

C’è in tutto questo una responsabilità materna? Certo, è innegabile che vi siano donne che amano male i loro figli, e li educano, di conseguenza, in modo sbagliato e dannoso per sé stessi e per gli altri. Ma ciò avviene spesso perché queste donne riproducono passivamente modelli culturali e schematismi comportamentali vecchi, dai quali fanno fatica a staccarsi per inconsapevolezza, ignoranza, paura, stanchezza, qualche volta anche per convenienza e malafede, sempre presenti nell’animo umano. Il vecchio codice non contempla la possibilità che anche la madre possa essere un modello, possa proporre valori e principi, e non solo latte e merendine. La madre è falsamente esaltata, per poterla meglio rinchiudere nella sua gabbia di consuetudini e ripetizioni stantie di raccomandazioni, cure materiali e inutili rimproveri e recriminazioni. Del resto, nella nostra cultura “liberata”, la madre è colei dalla quale occorre ancora fuggire per ritrovarsi, per affermarsi, insomma per esistere fuori di lei secondo lo schema di una certa vieta psicoanalisi. Non le si riconosce apertamente autorevolezza, capacità di scegliere, decidere e risolvere situazioni problematiche per sé e per i propri figli, tutte cose peraltro che le nostre antenate hanno sempre fatto egregiamente ogni volta che è stato necessario. Si preferisce rimpiangere la “perduta” autorità paterna, senza riconoscere che tocca alla libertà e responsabilità degli uomini ricostruirla partendo, si spera, da una nuova visione di sé e dell’altro, dove il possesso e la forza dominante di un passato da non rimpiangere lascino un po’ di spazio all’empatia, alla cura della relazione e al franco confronto con l’altro, anzi l’altra, che non è un’Erinni scatenata, ma una persona a tutto tondo alla quale bisogna riconoscere il diritto di scegliere, talvolta anche sbagliando.

In conclusione, care ragazze che giustamente nutrite aspettative importanti di felicità e realizzazione personale anche in una relazione significativa con i vostri compagni, noi madri vi auguriamo di crescere nella consapevolezza del lungo cammino che tante donne vissute prima di voi hanno fatto per conquistare la libertà di essere o non essere madri, di vivere in coppia o da sole, di realizzare la propria vita ascoltando sé stesse e i propri desideri più profondi e non i comandi e le pressioni provenienti dall’esterno. Noi adulte, anzi già inoltrate nel cammino della piena maturità esistenziale, abbiamo scelto – quando lo abbiamo voluto – di fare spazio a voi e ai vostri fratelli e compagni in questo cammino faticoso ma appassionante che è l’esistenza umana. Vi abbiamo desiderate, scelte e cercate, felici di dare ad altri esseri umani la possibilità di godere la vita e apprezzarla in tutti i suoi aspetti, compresi quelli del dolore, del disinganno e della rassegnazione: tutti li temiamo, ma anch’essi hanno qualcosa di significativo, anzi essenziale, da insegnarci. È importante però che ora voi raccogliate il testimone della storia: quando siete nate vi abbiamo accolte e poi curate, come meglio sapevamo e potevamo; ora tocca a voi e ai vostri compagni entrare nella fase della seconda nascita, quella sociale, pubblica, come attori consapevoli e determinati sulla scena di un mondo che non è affatto quello che noi sognavamo, come quello precedente non lo era rispetto alla generazione dei nostri avi e ave. Ora per voi il compito è forse anche più difficile, ma tanto più necessario: coraggio e buona sorte, quella che sarete capaci, almeno in parte, di costruire per voi stesse e i vostri compagni, insieme.

Mariapina Masulli

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