L’ultima volta che ci siamo visti l’aria profumava ancora d’estate, avevi colto i dettagli del mio orologio pendente decorato a mano e mentre lo osservavi mi chiedevi perché avevo fatto una scelta tanto insolita in un mondo ormai completamente violato e violentato dal digitale.
Io ti ho risposto che tu mi avevi insegnato, durante una delle nostre lunghe conversazioni che questo presente virtuale in cui viviamo è famelico e vorace, mentre il passato sa essere delicato e discreto. Eri riuscito ancora una volta a cogliere qualcosa in più dietro ad un semplice oggetto d’ornamento.
A quel punto ci siamo detti che era da tanto tempo che non parlavamo di arte e bellezza, di film e di libri, persino di profumi e stilisti, davanti al tuo caffè americano scherzosamente ribattezzato “caffè alla Tretola”.
All’ombra del tuo laboratorio, della tua bottega senza apprendisti, prendeva forma la bellezza come sapevi intendere e cogliere soltanto tu, senza mezzi termini, prudente e nascosta nella cornice di uno specchio riportato in vita dalla tua ispirazione o trionfante e fiera sulle forme di una scultura.
“La bellezza – dicevi – non si può esprimere univocamente. Come le parole non possono descrivere gli odori che ci investono di ricordi, essa non può essere narrata con le parole ma soltanto espressa in mille sfaccettature. Giace nella nostra percezione e ognuno percepisce il mondo in maniera diversa, per cui, non esprimere mai giudizi su cosa è brutto e cosa è bello perché saresti superficiale e io non voglio che tu lo sia. La superficialità, in qualsiasi contesto, deve essere bandita!”
Vedevi certamente la bellezza nelle tue opere, anche nella tua bicicletta utilizzata come base per il tavolo sul quale posizionavi minuziosamente i tuoi nuovi volti, la vedevi nei materiali che prendevano forma sotto le tue mani, addirittura nell’odore della saldatura e della colla.
Poi mi dicevi : ” Sei una piccola birbante impertinente! Vieni qui, mi fai respirare il profumo della schiettezza facendomi arrabbiare perché non sai che storia c’è dietro questi colori che tu chiami con disarmante ingenuità azzurro, grigio, giallo”.
Eh già…dietro quei colori per te vi erano il cielo terso dell’Africa, le nuvole frastagliate di Parigi e il sole invitto di Roma. C’era il voto d’ebano di una passante mai più rivista e c’erano i paesaggi riflessi negli occhi di sconosciuti compagni di viaggio.
C’era la tua vita in tutte le sue sfumature, con tutti gli eccessi e le rassegnazioni, la soddisfazione di averla vissuta come una grande avventura da raccontare attraverso l’arte e l’amarezza per quello che non avevi potuto realizzare.
Chi ti ha conosciuto sa con quale vigore e competenza riuscivi a distruggere convinzioni e convenzioni nei tuoi interlocutori, frantumando ogni visione in mille pezzi da ricomporre in nuove prospettive.
Voglio immaginarti esattamente così, dove e come sono certa ti sarebbe piaciuto vivere: immerso nei tuoi pensieri nell’angolo di un cafè parigino, tra i colori e i profumi di quella collina di Montemartre vissuta da Suzanne Valadon e Maurice Utrillo, ultimi protagonisti di una delle nostre ultime conversazioni.
Margherita Granatiero