Il mio primo incontro con l’ultimo grande cantore di Carpino risale a cinque anni fa, nel suo paese natio. Appena mi vide, si sollevò dalla sedia ed aveva gambe lunghissime ed una gentilezza nel volto e nei modi che mi mise subito a mio agio. Ci appartammo su un gradone che percorreva tutto un lato di quella sorta di terrazza antistante il bar. Ma io gli chiesi di andare più in là, dove faceva da corona una bella rampicante fiorita, perché desideravo scattargli qualche foto. Si aspettava che io gli chiedessi ragione dei canti che lui portava in giro per il mondo. Invece volli sapere qualcosa della sua infanzia. E lui mi disse: “Devi sapere che io sono nato il 1916 e quando avevo due anni ho perso la mamma ed il papà, morti per l’influenza spagnola. Così, rimasto orfano, fui affidato ai miei nonni materni. Ma i tempi di allora erano cattivi, c’era la fame, così a otto anni mi toccò di andare a guardare le pecore. Qui vi erano delle persone adulte che si tramandavano dei canti popolari. Erano solo canti orali ed io, non avendo altro da fare, passavo il tempo a cantarli, mentre guardavo le pecore. Divenuto grandicello, ho lasciato il mestiere del pastore e mi sono dedicato alla coltura dei campi, come semplice bracciante. Non stavo mai in un posto e giravo per le campagne e, mentre lo facevo, mi fermavo spesso a cantare, Qualcuno se ne accorse e cominciò a chiedermi di intervenire alle feste di paese. Soprattutto venivo chiamato dai giovani che desideravano conquistare una ragazza. Allora, si usava che quando un ragazzo s’innamorava, faceva portare la serenata alla ragazza. Venivo chiamato quasi ogni sera e, siccome cantavo bene, le richieste non mancarono. Poi, alle richieste dei giovanotti in amore, si aggiunsero i matrimoni, il carnevale, la raccolta delle olive, del grano e le diverse usanze della nostra zona”.
Alla richiesta se conoscesse Matteo Salvatore, altro grande cantore che metteva a disposizione la propria voce per il riscatto della gente del Sud, egli rispose di aver conosciuto Matteo Salvatore, ma che nei luoghi da lui frequentati non era mai giunta voce delle lotte bracciantili. “Certo, le cose allora non erano belle. Chi aveva qualche pezzo di terreno se lo teneva stretto e non dava molti soldi agli operai. Non si aveva luce, né acqua, che ci toccava prendere lontano in qualche campagna. Ma da noi il richiamo di queste lotte non era avvertito, né si sentiva parlare di Giuseppe Di Vittorio. In ogni caso io e Matteo Salvatore abbiamo due diversi repertori. Io canto prevalentemente d’amore, lui di società. I nostri canti li abbiamo portati avanti fino all’inizio dell’ultima guerra mondiale. Poi gli uomini sono andati tutti via. Dopo la guerra ci siamo ritrovati col grammofono, la radio e, più tardi, anche con la televisione, per cui i nostri canti sono stati accantonati. Tutti hanno puntato sulla modernità, mentre io ed i miei amici abbiamo continuato a tenere accesa la fiamma dell’antichità, fino a quando non è venuto a trovarci un giorno un uomo di spettacolo di Bologna che ci ha scoperto. Poi sono venuti anche Eugenio Bennato, Teresa De Sio ed un certo De Simone di Napoli, tutti molto interessati ai nostri canti. Ma non se ne fece nulla. Solo dopo otto anni si sono fatti nuovamente vivi e ci siamo esibiti a Milano, a Napoli e a Roma. In questo via vai la gente ha cominciato a conoscerci ed hanno preso ad invitarci, con Bennato o senza Bennato, finché sono venute richieste anche fuori dall’Italia. Siamo stati a Gerusalemme, a Nazareth ed in tutti i posti più belli del mondo. Abbiamo cantato a Tel Aviv, a Berlino, a Norimberga, a Bruxelles, a Barcellona, a Dubrovnik ed in moltissime città d’Italia. Insomma abbiamo passato un anno intero cantando. Naturalmente non cantavo solo, ma insieme ai miei amici cantori: Andrea Sacco, Antonio Maccarone e qualche altro. Poi i miei compagni sono diventati anziani e si sono fatti vivi dei giovani per esercitarsi nel canto popolare e portare avanti la tradizione.
Gli ho chiesto se tenesse scritti i suoi canti o li aveva mandati a memoria. ”No, non sono andato a scuola, perché da ragazzo guardavo le pecore; quando sono cresciuto ho frequentato le scuole serali. Tuttavia i miei canti li ho tutti nella testa e sono canti d’amore, soprattutto dedicati ad una donna, giacché ai miei tempi l’uomo non poteva vedere la propria ragazza realmente. La conosceva solo da lontano, quando quella andava in chiesa; qualche volta riusciva a vederla di contrabbando. Io per esempio mi sono sposato a vent’anni, la mia futura moglie ne aveva diciotto, e l’ho conosciuta solo dopo il matrimonio. Prima non ci ho mai parlato. Per farle la dichiarazione d’amore l’ho detta ad una zia, che ha portato l’ambasciata alla donna dei miei pensieri; quando lei mi ha risposto di sì, abbiamo preso a scriverci, sempre tramite la zia. Però, dopo che ci siamo sposati, terminata la festa ed andati via anche i compagni che avevano portato la serenata, io ho chiuso la porta e ho tirato giù la sbarra… Embè!”.
A questo punto, gli ho chiesto perché non abbandonava mai nelle sue esibizioni le nacchere. Mi ha spiegato che non saprebbe cantare senza le nacchere, perché esse danno il tono ai suoi canti. “Però la musica non me l’ha insegnata nessuno. Io sono un cantore con nacchere ed è l’uso che mi ha insegnato a suonarle; so anche fare qualcosa con la chitarra battente, però non sono bravo.” Dopo una pausa: ”Mi dispiace solo per i compagni che non ci sono. Ma io non mi faccio prendere dalla nostalgia perché ho sempre voglia di cantare, se fosse possibile vorrei cantare tutte le sere, quello è il mio divertimento”.
Alla fine gli chiesi di farmi ascoltare qualcosa. Ci provò, senza la chitarra, e prese a cantare la “Ninna Nanna di Carpino”. Ne uscì un lamento flebile e penetrante, così toccante da mozzare il respiro. Mi feci prendere dalla commozione. Lui se ne accorse e disse “Pure io mi commuovo ogni volta che la canto. A Carpino non tutte le madri avevano una culla. Di solito si usava la mezza sedia, si prendeva il bambino in braccio e si cantava questa ninna nanna, dondolandosi sulle gambette di legno fino a quando non s’addormentava. Io la canto sempre. L’ho imparata da bambino e non manco mai, mai, mai di cantarla, perché il mio ricordo va alla mamma che non ho avuto ed alla ninna nanna che nessuno ha potuto cantarmi. Però mentre la canto devo stare attento, poiché sono in pubblico e, se non mi trattengo, mi scappano le lacrime”.
Quest’incontro risale a cinque anni fa. Ma ho avuto la fortuna anche di aver potuto festeggiare, nel mese di febbraio, il suo centesimo anno di vita, invitato dall’Associazione Carpino Folk Festival. Nel rivolgermi ai ragazzi delle scuole superiori, tutti raccolti intorno alla festa “Zi ‘Ntonio” ed alla sua grande anima, ho detto soprattutto questo: l’insegnamento che ci lascia Antonio Piccininno, il grande cantore dell’amore, è che quale che sia lo stato in cui vi troverete nella vita, per quanto insormontabili vi sembreranno le difficoltà da affrontare, ricordatevi sempre che per ognuno di voi ci sarà sempre una possibilità di successo o di riscatto, se con determinazione metterete in campo tutte le vostre energie e la fiducia che occorre avere nel futuro.
Italo Magno