Il carnevale, nella comunità sipontina, ha continuato ad avere quello “spirito” disincantato, grottesco, di scherno, prevaricatore, un po’ blasfemo, un po’ boccaccesco, con gruppi spontanei, di “ragazzi” e “ragazze” (si fa per dire, perché non mancano in merito altri aneddoti) a correre per le strade “sfottendo” i malcapitati, ma sempre con pacifico rispetto. E quello “spirito” sipontino, di cui scrive il Giordani, è irripetibile in altre contrade di Puglia e di Italia: è innato nella nostra gente. E il carnevale è sempre stato l’unica occasione per ridondare i mali verso chi ne è l’artefice. Il carnevale sipontino, quindi diventava un problema per il potere costituito, giacche si rileva dai solleciti del Comando della Compagnia Civica e del Giudice Regio, una missiva del 24 gennaio del 1826, al Sindaco di Manfredonia, che così recita:
Signor Sindaco
Alcuni de’ Capoposti delle mie pattuglie mi ha fatto conoscere, che le persone vestite a maschera si vedono nella notte avanzata co’ volti avverti di maschera medesima, dimodocchè essi si compromettono per farne la ricognizione de’ soggetti mascherati. Per evitare adunque qualche disordine, che potesse accadere nel corso di questo Carnevale, la prego di disporre un Bando per la Città, acciò dalle ore 24 in avanti, coloro i quali desiderano di vestimi di maschera, andassero tutti smascherati.
Il sospetto era che quello “spirito carnevalesco” poteva pur essere quello liberale e carbonaro, per cui gli incontri, le riunioni, le feste potevano pur “mascherare” sedizioni di stampo eversivo. E questi divieti si rilevano pure nei primi anni dell’unità d’Italia. Nel periodo del cosiddetto “brigantaggio” sul Gargano, si hanno degli ordini del Prefetto, del 16 gennaio 1866, trasmessi al Sindaco di Manfredonia, come da decreto del 15 gennaio precedente, nel quale tutt’altro viene sancito:
Art. 2. È vietato l’uso delle maschere e dei travestimenti che offendano la morale
o la religione, che abbiano indebite allusioni; o che possan eccitare ribrezzo.
Art. 3. Alle persone mascherate è proibito di portare armi, bastoni, fiaccole o di lanciare razzi.
Di questi divieti ne troviamo alcuni anche nel periodo della cosiddetta liberazione e occupazione alleata anche perché, negli anni 1944, 1945 e 1946 i bordelli prolificano e le ubriacature erano di prammatica, con scempi e lordure della peggiore specie. Il tutto veniva “mascherato” con il “pagliaccio” (specie di dómino), cucito con il tessuto dei paracaduti, per i più “fortunati”. Ze Pèppe carnevèle, il nostro “Pasquino”… e a fronte di un sedicente ubriaco od anche di folle enormi di buontemponi che non mostrano rispetto per alcuno, c’era veramente di che preoccuparsi. D’altronde Ze Peppe è l’antitesi del potere e non può essere rappresentato accanto allo stemma del Palazzo. È lui l’antesignano dello “svergognamento”, dei soprusi che giorno dopo giorno vengono subiti dai cittadini… e la nostra maschera o zimbello merita ben altra rappresentazione.
di Giovanni Ognissanti