Ancora un femminicidio. Un altro. E un altro ancora. L’ennesimo. Sembra che non debba finire mai. Che non siamo capaci di fermare questa serie infinita e tragica di storie che ci scappano dalle mani.E sempre con la stessa scusa: “L’amavo troppo!” Oppure. “Se non la posso avere io, non la deve avere nessuno”. Come se le donne fossero oggetti da avere e da possedere. E invece no! Non è così!
Se pensi che l’amore ti dia il diritto – o peggio ancora il potere – di disporre della vita di chi dici di amare, allora non hai capito proprio niente dell’amore. Perché il tuo non è amore. E, allora chiamalo, per nome: il tuo si chiama narcisismo. E il narcisista è un malato, segnato da grande fragilità, da una grande immaturità. Il narcisista si illude che il suo sia amore, ma in fondo non sa amare. E non è che non sa amare solo gli altri, ma non sa amare neanche se stesso. Perché egli, il proprio se stesso, non lo ha mai incontrato.
E se dice di amare è solo per possedere, trattando l’altro come un oggetto del proprio piacere, sia fisico che psicologico. Ama per colmare un vuoto che da solo non è riuscito a risolvere. Ma questo non è amore, è servirsi dell’altro.
Amare invece è avere la consapevolezza che l’altro non sarà mai mio. Perché egli sarà sempre suo. Suo e soltanto suo. Nessuno è di un altro, ma ognuno è solo di se stesso. C’è sempre una distanza che nessun sentimento potrà mai colmare. Per questo amare è restituire l’altro a se stesso. E allora dovremmo cominciare a cambiare le parole e abolire certe espressioni tipo “Il mio ragazzo, o la mia ragazza”, “Mia moglie, mio marito”. La parola “mio” – che è molto vicina alla parola “io” – in amore è pericolosa.
Il vero problema è che in giro, nella maggior parre dei casi, ci sono amori che non sono amori. Spesso sono amori mascherati e camuffati di egoismo, dove diciamo di amare l’altro solo nella misura in cui ci fa stare bene, ci fa provare un sentimento di gratificazione, di soddisfazione, di realizzazione. Ma così facendo io non amo l’altro “per” l’altro, ma lo amo per me solo. Antepongo il mio ego al suo bene.
E così, dicendo di amare lui o lei, in fondo io voglio amare solo me stesso. Quel me stesso che, a die il vero, non ho mai incontrato. Sì, perchè all’altro molti ci vanno da estranei e da persone spezzate dentro. Squilibrate, senza un ordine interiore, anche se apparentemente normali, anche se poi all’esterno si presentano come “bravi ragazzi”.
Ma, diciamolo, quanta falsa normalità repressa c’è in giro? Tanta! La normalità è una scelta che si paga a caro prezzo, vigilando su se stessi per evitare comportamenti nocivi sia per sé che per gli altri. Per evitare di superare i limiti imposti dal fatto che la mia libertà non può fare violenza a quella altrui.
E lo facciamo perché, paradossalmente, non sappiamo amare neanche noi stessi. Infatti, chi si ama davvero, conosce sia le proprie possibilità che i propri limiti. Chi si ama è pronto a donarsi e non a imporsi. Sa aspettare e sa anche farsi da parte al momento giusto. Non prevarica, non si impone ma si dona. Si conosce e si riconosce, e quindi riconosce anche gli altri.
Non si oggettiva e quindi non oggettiva nessuno. Il rispetto che ha imparato a nutrire per se stesso è lo stesso che riesce in seguito a nutrire per chi dice di amare. E preferisce soffrire lui piuttosto che essere causa di sofferenze altrui. Impara la delicatezza e la comprensione. Insomma è una persona matura, pronta alla cura. Perché sa andare oltre il proprio io.
Ma tutto questo oggi è merce rara. E’ poco creduto e praticato. Il problema è che nessuno educa (specie nell’età cruciale della adolescenza) a saper stare da soli, per cui accade che, quando qualcuno, che pensavamo ci amasse, ci lascia, e restiamo soli, ecco che non sappiamo gestire tale solitudine. E incolpiamo gli altri di tale situazione, cercando anche di fargliela pagare. Invece, amare è lasciare andare. Non essere padroni ma diventare custodi. Perché amare è saper accattare che l’altro possa anche fare a meno di me! Invece, in giro domina un amore possessivo, che ben presto diventa ossessivo, e non un amore oblativo.
E allora è inutile girarci intorno: il problema va analizzato alla radice. Molti non sanno che in amore si cresce. E si cresce solo se si impara ad amare. Ma oggi accade il contrario: si cresce curando altri aspetti, ma senza imparare ad amare. Si, perché come ha scritto qualcuno, l’amore è un’arte. Ed è per questo che la si impara, anche sbagliando, anche passando per delle delusioni.
E lo si fa cominciando da piccoli, imparando a dare e non solo a ricevere, a fare anche delle rinunce, nella consapevolezza che non tutto ci è dato e che non tutto ci è dovuto. Imparando a decentrarsi dal proprio io, passando, come dice Fromm, dal bisogno di essere amati al bisogno di amare. Imparando il rispetto e non il possesso, a saperci prendere cura e non a servirsi dell’altro.
In amore, nessuno nasce esperto, né serve collezionare avventure o esperienze amorose. L’amore vero è tutt’altra cosa. Invece oggi, come dice Bauman in un suo bellissimo libro dal titolo “Amore liquido”, siamo diventati “collezionisti di esperienze”. E, per molti, l’amore è solo un gioco, dove si cercano emozioni forti, emozioni che difficilmente evolvono e maturano, diventando sentimenti per poi elevarsi e trasformarsi in virtù.
Allora il problema non è solo penale e/o giuridico, o sociale nel senso lato del termine. Esso è soprattutto educativo. Chi oggi educa ad amare? O meglio chi oggi educa a gestire la propria sfera affettiva? Molti lavorano solo sul piano cognitivo e poco sul piano emotivo e relazionale, commettendo il grave errore di dividere la dimensione della razionalità da quella dell’affettività e della corporeità.
Ma quello dell’educare dovrebbe essere compito degli adulti, i quali, però proprio essi, a volte, sono più fragili degli adolescenti. Perciò, il femminicidio è anche figlio di un diffuso analfabetismo affettivo che si sperimenta in famiglia, a scuola, nelle parrocchie, per strada, nelle prime relazioni tra pari, nelle amicizie, nei primi innamoramenti.
Ai giovani ormai è rimasto solo il web, questo grande maestro occulto, dove sono bombardati da messaggi e immagini che di certo non hanno l’intenzione di educare, ma solo di usarli per fare soldi o per acquisire potere a livello di immagine.
Nessuno educa insegnando a perdere, a gestire le frustrazioni, a elaborare i “no” che si ricevono. A elaborare i lutti, i fallimenti. Al contrario, tutti insegnano a possedere. In amore, invece, vince chi perde.
Colui che da grande commette un femminicidio, in fondo, è uno che da piccolo gli è stato insegnato che può avere tutto. Che non deve soffrire. Che se qualcosa non gli viene dato con amore, ha il diritto di prenderselo con la forza. E’ un bambino che è cresciuto con l’idea che la mamma – primo oggetto del suo piacere – è, e sarà, sempre sua. Che forse ha avuto un padre che non ha saputo dargli delle regole con cui imparare a limitarsi di fronte a ciò che non gli è dovuto. Bambini figli di modelli iperprotettivi e permissivi.
Insomma, se vogliamo prevenire in futuro queste tragedie dovremmo seriamente tornare tutti a educare. E non serve fare solo informazione, sciorinando statistiche o storie. Educare è un processo lungo e complesso, che ormai nessuno può fare da solo. Ma insieme. Con alleanze educative che, sul territorio, creando reti tra vari soggetti, aiutano i bambini e gli adolescenti a crescere e a maturare imparando l’arte di amare, sperimentando i tre tipi di amore: l’amore di sé per essere coerente con me; l’amore per gli altri per costruire relazioni sociali fondare sula responsabilità; e, infine, l’amore per la persona di cui mi troverò innamorato, per prendermi cura e aiutarla a trovare con me quel bene che nessuno può darsi da solo.
Come antidoto alla cultura del femminicidio, il Papa anni fa ci ha dato tre parole per indicarci come dovremmo amare, e su cui ho scritto tempo fa un articolo a riguardo. La prima parola è “Permesso”, perché quando ami entri da ospite e non da padrone. E perché la terra dell’amato è luogo sacro dove per entrare ti devi togliere i sandali. Ti devi spogliare di tutto. Del tuo io e di ogni pretesa. L’amore è deponenza e non onnipotenza.
La seconda parola è “Grazie”. Perché lamato o l’amata ha scelto di stare con te. E’ un dono da custodire e non un oggetto da usare o su cui abusare. E’ un’alterità inarrivabile e non una merce disponibile. Infine “Scusa” perché in amore si entra con la propria fragilità e con la consapevolezza ce si può sbagliare. Partendo sempre dai propri errori e mai da quelli altrui.
Dovremmo tutti imparare ad amare facendo nostro il pensiero di un grande scrittore francese morto circa un anno fa, il 24 novembre 2022, C. Bobin, che coniò questo slogan: “Illumina ciò che ami senza toccare l’ombra”.
Michele Illiceto