Sabato 2 Novembre 2024

Riapre la scuola, luogo di domande e di risveglio delle coscienze (di Michele Illiceto)

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Si torna a scuola dopo un’estate nella quale la cronaca ci ha consegnato fatti e situazioni davvero sconvolgenti, come la morte dei due bambini rumeni nelle campagne di Fonterosa, nel nostro territorio di Capitanata, o gli stupri compiuti da gruppi di minorenni a Caivano e a Palermo, o le morti senza fine di tanti migranti nel Mediterraneo, o ancora la tabaccaia uccisa a Foggia.

Tutti questi eventi pongono una serie di domande. Nuove questioni, nuovi perché. Sono domande che disturbano la nostra stentata normalità. Che hanno bisogno di essere messe a tema, individuate e focalizzate per essere concettualizzate, tradotte in linguaggio e codificate in un sapere che ancora nessuno riesce ad esplicitare, perché forse ci mancano le chiavi di lettura per capire e inquadrare tali fatti.

Lo smarrimento provocato è in primo luogo uno smarrimento delle parole. Uno smarrimento che definirei “semantico”, perché è difficile riuscire a dare un “senso” a quanto è accaduto. E per farlo è necessario soprattutto riuscire a leggere queste tragedie attraverso le domande che esse pongono a livello educativo e che quindi interpellano anche il mondo della scuola. Misurarla col pensiero oltre che con l’azione. Altrimenti le decisioni che prenderemo saranno frutto di sola improvvisazione.

Ma dove fare tutto ciò? In quale luogo interrogare la realtà e se stessi a riguardo di quanto è accaduto?

Sicuramente a scuola, se è vero che essa è il luogo che si regge sulle domande, dove si impara la nobile arte del questionare oltre che dell’argomentare. Del riflettere e del pesare oltre che del parlare. Del dubitare oltre che del dialogare e del confrontare.

A dire il vero ciò dovrebbe accadere in primo luogo in famiglia. Ma qui pare che i genitori non abbiano abbastanza tempo per accogliere le domande dei propri figli, se non quelle indotte dalla logica consumistica del mercato dominante. La televisione e i social poi, dal canto loro, non amano le domande, preferiscono le distrazioni o dare subito risposte accomodanti, confezionate sotto forma di promesse vane.

Molti pensano che informare o educare siano la stessa cosa, e si limitano a dare soluzioni travestite di verità, lasciando taciuti i problemi e insolute le questioni. Ma così facendo è la vita stessa ad essere lasciata fuori dalla scuola, dai circuiti della comunicazione e del sapere. Ma una cultura che non riesce a dare un senso a ciò che accade nella vita quotidiana è incapace di gestire il cambiamento.

Quante domande i nostri ragazzi e adolescenti si portano dentro senza che se ne rendano conto! Li attraversano senza che ad esse sappiano dare un nome. Eppure, forse pochi sanno, che le domande che la cronaca recente ha posto sono le stesse di ieri, perché le domande (quelle vere e fondamentali) sono sempre le stesse, solo che cambiano forma. Si nascondono dietro gli eventi, e noi non abbiamo gli occhi giusti per decifrarle e intercettarle. A scuola offriamo gli strumenti giusti per farlo.

La cultura che ci viene consegnata, ahimè, non sempre coltiva e forma, perché problematizza poco, non sprona alla ricerca né mette in scena la pratica dell’interrogazione e della sospensione o la grande esperienza dell’erranza. E si finisce col diventare consumatori di idee altrui e non inventori di quelle proprie. Eppure, a scuola, è proprio questo che tentiamo di fare: liberare l’immaginazione che va in sposa con la ragione.

Ma accade che le risposte passano mentre le domande restano! Chi lavora a scuola sa che  incolmabile è la distanza tra ciò che si studia e ciò che si vive, tra ciò che si prova e ciò che si cerca di spiegare, tra un concetto e un’emozione. Tuttavia, non si scoraggia, ma questa distanza prova non tanto a ridurla, ma almeno a frequentarla, non tanto a superarla, ma per lo meno ad abitarla.

Il rischio, però, è che, per andare dietro alle carte e alle scadenze, non si riesca a produrre nessun cambiamento, e alla fine si finisce per aggrapparsi solo a una sterile ripetizione, fossilizzandosi in un’arida trasmissione. Accumulo senza investimento. Assimilazione senza alcun adattamento, come invece voleva Piaget.

Con dei genitori poi, presi dall’ansia da prestazione, che vogliono tutto e subito e che considerano i propri figli dei piccoli geni, è difficile fare passare l’idea che invece la scuola è il luogo dei tempi lunghi e della crescita graduale, dove sbagliare non è sbagliato, ma è fisiologico per chi vuole crescere, sperimentando vie nuove di conoscenze.

È a scuola che, grazie all’alfabeto sia del cuore che della ragione, le domande ricevono una prima forma. Una prima sistemazione per essere affrontate, stando attenti alle domande mal poste o, peggio ancora, a quelle rese mute dal sistema che le teme, specie se a temerle sono coloro che preferiscono che le coscienze delle nuove generazioni siano perennemente addormentate e narcotizzate da forme di vita anestetiche, o addomesticate da modelli che servono solo a controllarli e a trattarli come semplici consumatori di prodotti che devono solo assecondare la logica del mercato e del dio denaro.

La scuola serve per risvegliare le coscienze, abilitando i ragazzi all’uso critico della ragione. Non basta più fare appello alla sola libertà, perché questa, se lasciata a se stessa, può fare danni ed essere controproducente e tramutarsi in un peso a cui siamo condannati, come sosteneva il filosofo Sartre. Perciò, anch’essa va educata e orientata, specie in età adolescenziale. Che cos’è infatti la libertà senza la responsabilità? Che cos’è l’individualità di ciascuno senza la comunità di appartenenza?

La scuola aiuta a scegliere senza sostituirsi o abbandonare, senza essere autoritaria o, al contrario, troppo permissiva e iperprotettiva. Ma farlo non sempre è facile, in quanto è necessario coinvolgere sia genitori che docenti in un’alleanza educativa che è diventata sempre più difficile da stipulare.

Per questa ragione, educare non è dare risposte, ma insegnare l’arte del domandare. Non giocando a fingere di non sapere, ma realmente prendendo coscienza della propria ignoranza. Suscitare nei ragazzi l’amore per ciò che non conoscono.

D’Avenia nel suo libro “L’appello”, parafrasando Platone, ha scritto che “La verità è l’eros dell’intelligenza, il suo piacere”. E la realtà oggi chiede un nuovo eros della conoscenza. Un approccio nuovo alla condizione umana, per essere più attrezzati ad affrontare gli imprevisti.

Le domande non si costruiscono, si pongono, si intercettano. Anzi si impongono da se stesse, e non per una forma di potere di chi le propone. Si colgono e si raccolgono da quei vissuti nei quali ci giochiamo la partita della vita. Le si ricevono dai luoghi in cui si vive, dalle strade che attraversiamo e dai volti che incontriamo. Soprattutto dalla realtà quando non ci fa sconti. Quando ci delude e ci ferisce. Ma anche quando ci stupisce e, spiazzandoci, ci scompiglia con i suoi imprevisti. O ci sconvolge con i suoi esiti tragici.

Ci sono domande che provengono dal lato oscuro del dolore e domande che sorgono dal cuore misterioso della gioia. Quando sono vere provocano una specie di brivido che lascia un segno fin dentro la nostra pelle e non solo nel registro della ragione. Anche il corpo ha le sue domande, perché, come diceva Nietzsche, anch’esso ha le sue ragioni, che spesso restano fuori dalle case e dalle aule.

La scuola è il luogo dove questi tre registri – corpo, ragione e cuore – si incontrano e si intrecciano in nessi inestricabili e misteriosi. Corpo, ragione e cuore, nessuno servo e nessuno padrone, ma tre sentieri, percorrendo i quali vorremmo aiutare i nostri ragazzi a capire chi sono.

Tutto è domanda. Noi, gli altri, il mondo. E così le domande diventano il cuore della storia, della scienza, della fisica, della tecnica, della filosofia e della letteratura. Solo la tiepidezza e la noia non conoscono il chiarore e il furore che le domande suscitano. Perché esse non amano quella sospensione che provocano in chi invece se le pone.

Se è vero, come diceva Seneca, che “mentre si insegna, si impara”, allora il cuore della scuola è la relazione educativa tra chi insegna e chi apprende, visto che anche chi insegna impara da chi apprende. E l’insegnamento è al servizio dell’apprendimento, fuori da ogni sterile nozionismo e tecnicismo, al di là di ogni burocraticismo. Perché la scuola è soprattutto incontro e relazione. Comunità di volti e non procedure burocratiche.

Le domande accendono passioni e puntellano desideri rimasti nascosti. Scavano nel profondo della nostra anima, toccando il fondo nudo della nostra mancanza. Sono solitarie e dialogiche. Solitarie quando nascono e dialogiche quando si elevano e crescono, diventando dubbi e invocazioni di risposte. Sono dialogiche perché la verità che esse cercano si trova sempre sparsa in frammenti di cui tutti siamo portatori.

La scuola che raccoglie la sfida delle domande difficilmente è ripetitiva o semplicemente trasmissiva. Essa, accanto alla spiegazione e alla descrizione, mette in campo processi di generatività cognitiva ma anche affettiva, relazionale e sociale, e di conseguenza civile e politica. Stimola la creatività e l’immaginazione, oltre alla riflessione e alla traduzione. Sa unire, come voleva il filosofo e scienziato B. Pascal, dimensione estetica e dimensione epistemica, ragione e cuore, comprensione e spiegazione.  Fallimenti e ripartenze. Erranze e speranze. Momenti in cui si cade e momenti in cui si impara a rialzarsi.

La scuola muore se muoiono le domande. Se non si pratica la difficile arte del dubbio e della sospensione del giudizio. Ma anche la nobile arte del dialogo con se stessi, con gli altri e con il mondo.

Ecco allora un compito che spetta a tutti, specie a chi educa: trasformare i fatti di questa cronaca in una grande mappa di domande. Per elaborarla e affrontarla come esseri pensanti. Perché, come già diceva Plutarco circa duemila anni fa, “Gli studenti non sono vasi da riempire ma fiaccole da accendere”. Sapendo che, come ha ripetuto E. Morin in un testo di qualche anno fa, specie non abbiamo bisogno di “teste piene” ma di “teste ben fatte”.

E, allora, buona scuola a tutti!

 

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Commenti

  • Ottima analisi che condivido pienamente ma devo necessariamente far notare al caro Michele che oltre a insegnare e a formare le coscienze la scuola dovrebbe anche insegnare a lavorare, non nel senso di studiare ma nel senso di insegnare arti e professioni a giovani che intendono inserirsi nel mondo produttivo scoprendo e valorizzando le loro inclinazioni verso questo settore. E’ questo un aspetto forse fin troppo trascurato magari perchè molti genitori pensano che i loro figli sono dei “geni” come dici tu e devono frequentare l’università per “realizzarsi” dimenticando che forse i loro figli sono portati per lavori manuali e artigianali considerati quasi “umilianti” dalla perversa logica indotta da questa nuova società. Risultato: tante lauree e pochi lavoratori autonomi con la conseguenza di una penosa svalutazione delle prime e un preoccupante vuoto generazionale per i secondi. Grazie per l’attenzione e tanti saluti -Mimmo Scarda-

    domenico 04/09/2023 9:27 Rispondi

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