Il 9 maggio del 1978 Aldo Moro veniva assassinato. Fu il brigatista Mario Moretti a decretare la fine di quell’esistenza, sparando con una mitragliatrice Skorpion una raffica di undici colpi che perforarono i polmoni dell’ostaggio, ritrovato inerme in una Renault rossa in via Caetani, nel cuore di Roma, tra Piazza del Gesù e via delle Botteghe Oscure, giusto a metà strada dalle sedi della Dc e del Pci. Sono passati 45 anni da quel giorno in cui “un uomo pervaso dall’amore e dal rispetto per la democrazia e per lo Stato, animato da spirito di libertà e di solidarietà” come ha ricordato Sergio Mattarella, moriva ucciso in nome di una lucida follia, specchio degli anni di piombo. Ne parlo con profondo rispetto verso un uomo la cui grandezza è ancora oggi fonte inesauribile per capire la complessità della politica da cui giovanissimo sono stato attratto. Conservo un ricordo nitido delle poche volte che incontrai Moro. La prima volta a Foggia, a metà degli anni ‘60, quando inaugurò il Museo civico. C’erano Carlo Forcella e Vittorio Salvatori che di lì a poco sarebbe diventato sindaco di Foggia. Moro si lasciò guidare in quella visita da Maurizio Mazza, storico direttore del Museo dal quale mi recavo per apprendere i primi rudimenti del mestiere di giornalista. La seconda volta a Bari in occasione del cinquantenario della sua università. Era il 21 dicembre del 1975. Accompagnavo Franco Galasso. Moro pronunciò un discorso bellissimo per il trentennale della resistenza, parole ancora oggi attualissime. L’ultima volta che lo vidi fu a Bergamo Alta , nel ‘77, durante il congresso del Movimento Giovanile della Dc che chiamò Marco Follini, amico intelligente e saggio, a guidare le leve democristiane. Marco venne eletto grazie ai voti dei delegati della Puglia che con il 4 per cento furono determinanti per la sua ascesa. Con me c’erano Matteo Di Mauro, militante della corrente di base e Lello Palumbo, fedelissimo di Vincenzo Russo. Io avevo scelto di restare con Carlo Donat Cattin, nella corrente di Forze Nuove, dove mi sentivo più a mio agio in quegli anni caldi della Prima Repubblica. Quello tra Aldo Moro e Carlo Donat-Cattin fu un lungo rapporto di reciproca stima nella diversità. Una collaborazione andata modificandosi nel corso degli anni in cui non venne mai meno però un forte legame. E dire che Biagio Di Muzio, acuto lettore di quei percorsi, basista tutto d’un pezzo ma estimatore di Moro, mi invitava a non soffermarmi solo sulle differenze bensì sulle sottili distanze che aprivano sempre possibili convergenze tra Moro e Donat-Cattin. E a rifletterci su, Biagio aveva ragione. Erano due menti formidabili. “C’è un profilo che sta sopra quello politico, ed è il profilo morale”. In questa frase di Carlo Donat-Cattin si legge tutto il senso di una vita e il valore di un impegno che lo ha visto protagonista per oltre trent’anni della scena politica italiana, sempre distinto ma non distante da Moro. Dai “dialoghi epistolari” con Moro, Fanfani, Rumor, Forlani, Andreotti, Piccoli, Zaccagnini, Cossiga e De Mita emergono retroscena e aspetti inediti dell’Italia democristiana,abbattendo luoghi comuni e ricostruzioni dei fatti spesso manipolate. Eppure l’incapacità che ancora oggi prevale nel non saper o voler cogliere nell’insegnamento di Moro il triste presagio di una deriva per la democrazia del nostro Paese continua a far da sfondo ai guasti che hanno avvelenato i pozzi delle politica, contaminando idee e valori. Del resto, anche la stessa morte di uno statista così ineguagliabile per la sua tempra morale, rimane avvolta da interrogativi disarmanti che neanche la Commissione d’Inchiesta parlamentare è riuscita a chiarire. Nel tempo me ne sono reso conto, ho compreso che ci sono mezze verità o verità negate, nascoste in questa triste pagina consegnata alla storia. Parlando con il Giudice Ferdinando Imposimato, che segui l’inchiesta sulla strage di via Fani, pervenendo ad ipotesi agghiaccianti, ebbi la conferma del gioco di ombre che avvolgeva il triste destino del leader democristiano. E anche qualche anno dopo, l’amarezza che mi lasciò un dialogo con il fratello di Aldo Moro, Alfredo, giudice minorile, al termine di un incontro conviviale per me indimenticabile, ancora mi pervade. E allora penso che ricordare oggi Moro significhi non solo cercare di rileggere il suo pensiero politico ma interrogarsi ancora sul perché di quella morte atroce ed incredibile, come in maniera mirabile fece Carlo Donat Cattin il 16 marzo del 1979 con queste parole: “Potevamo essere meno rigidi? Dovevamo agire di più, inventare, sommuovere, minacciare, ritorcere, pagare, pregare di più per ottenere la sua salvezza”?
di Micky dè Finis
Bellissimo articolo,complimenti, condivido tutto..