Ho seguito, tra il serio e il faceto, il dibattito che nei giorni appena trascorsi si è sviluppato intorno alle celebrazioni del 25 aprile. Pensavo che il tema fosse ormai avviato a conservare più che altro quel suo fascino letterario, storico e politico universalmente riconosciuto, ma sbagliavo perché, al netto delle diatribe riemerse ho maturato l’idea che la festa nazionale che suggella, in nome della libertà, i principi democratici su cui è nata la nostra Repubblica, sia tutt’altro che condivisa. Sono venuto al mondo dieci anni dopo la fine della seconda guerra mondiale e per mia fortuna non ho vissuto gli anni bui del fascismo. E tuttavia, come per la maggioranza degli italiani, ho sempre considerato quel periodo come una delle pagine più tristi e vergognose della storia del nostro Paese, per le crudeltà consumate con cieca ferocia dai fascisti e dalla miope follia del cavalier Benito Mussolini. Complici di questo mio convincimento gli insegnamenti acquisiti in giovane età nella Fuci guidata dal Franco Galasso e Carlo Forcella e poi nella Democrazia Cristiana. Con amarezza rilevo che, lungi dal voler pretendere una memoria condivisa, il cammino per arrivare ad una pacificazione delle opposte visioni sia ancora e purtroppo molto lungo e lontano l’approdo. E difatti il Capo dello Stato, che ha celebrato per l’ottava volta il 25 aprile, non aveva mai avuto la necessità di alzare i toni sempre ancorati ai valori della Resistenza. Quest’anno, lo hanno spiegano bene autorevoli interpreti del linguaggio del Quirinale come Marzio Breda e Ugo Magri, Mattarella ha dovuto farlo per bilanciare, come dire, qualche ambiguità di troppo della destra di governo. In vero il Presidente della Repubblica ha svolto a Cuneo una vera lezione di storia partendo dalle illuminanti parole di Piero Calamandrei, mentre Giorgia Meloni, con la sua lettera al Corriere, ha preferito più che altro discostarsi dalle posizioni precedenti che, è bene ricordarlo, sono sempre state di contestazione al 25 aprile e ai valori che incarna. Si è visto persino Gianfranco Fini riemergere dall’oscurità e riprendere la premier per non aver mai pronunciato la parola antifascismo, salvo poi correggere il tiro il giorno dopo sulle stesse pagine del Corriere e riallinearsi alla Meloni, forse per malcelate questioni di bottega. Come che sia, trovo che questa storia della destra che non riesce, almeno in gran parte, a dire che il fascismo è stato un dramma per l’Italia e per gli italiani sia insopportabile. A cosa serve farsi un giro con la partigiana novantanovenne Paola Del Din se poi ci si nasconde dietro mezze parole, rifiutando con marchiana astuzia di pronunciare un’abiura con una ritrattazione solenne? Insomma, credo si possa tranquillamente affermare che il tentativo di far dialogare il governo formato da ex militanti dell’MSI e il 25 Aprile sia franato perché le migliori intenzioni della premier, consegnate urbi et orbi con quelle parole incoraggianti (“da molti anni i partiti di destra hanno dichiarato la propria incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo”) si sono scontrate con le improvvide dichiarazioni del presidente del Senato, Ignazio La Russa, la cui protervia non ha mostrato limiti al punto da affermare che nella nostra Carta Costituzionale non esiste la parola antifascismo!! Adesso, chiusa la querelle, rimarrebbe da analizzare come immaginare una premier ne fascista, né antifascista, mentre più agevole potrebbe sembrare invitare Ignazio La Russa a cantare Nostalgia Canaglia, constatata la sua lodevole capacità di restare fedele alla sua storia che è quella che è. Si dirà che il simpatico presidente del Senato, fuggito a Praga, ha poi chiesto scusa, rettificando in parte il suo pensiero ma ormai la frittata era cotta, anzi la “sgrammaticatura istituzionale” come ha bollato quell’uscita la stessa Meloni, era servita. Non è un caso che alla Garbatella, il quartiere romano dove abita la premier, è comparso un murales di un artista di nome Laika in cui si vede una nonna partigiana inseguire La Russa brandendo un mattarello. Adesso c’è da sperare che il Consiglio dei Ministri, convocato dalla Meloni il primo maggio per occuparsi di lavoro non dimentichi che la nostra Costituzione, nata dalla Resistenza, lo menziona nel suo primo articolo, quello della Repubblica, fondata, appunto, sul lavoro.
di Micky dè Finis