di Matteo Borgia
La devozione per San Matteo da parte dei Manfredoniani è risaputa e facilmente verificabile. Fino alla fine degli anni Sessanta, Matteo era il nome più diffuso; poi ci fu una grossa ondata migratoria con la costruzione dell’ANIC e i Michele e soprattutto gli Antonio superarono gli abitanti col nome dell’Evangelista.
Per dire a una persona che non era perfettamente a piombo, non era infrequente (lo è ancora) usare “síje pròprije nu Mattóje” (sei proprio un Matteo). Ciò era dovuto proprio alla grande abbondanza di Matteo in circolazione, per cui ce n’erano davvero di tutti i tipi.
Capitava che quando erano radunate molte persone, ci fossero tanti Matteo. E lì scattava il modo di dire: “Putíme battezzé u ciúcce” (possiamo battezzare il ciuccio, l’asino). Ancora oggi, si usa, quando ci si accorge che più persone (almeno tre) hanno lo stesso nome. Ma da cosa deriva questo modo di dire?
L’asino, per molti contadini ma non solo, era un investimento importante, un aiuto fondamentale sul lavoro. Bisogna considerare che un asino campava anche 30 o 40 anni. Quando veniva preso da un padrone – in genere si acquistavano alle fiere – per prima cosa gli si imponeva un nome (lo si battezzava, non con il sacramento cristiano vero e proprio, ma spesso era proprio un prete che lo benediceva con l’acqua santa), spesso un nome umano, che serviva anche a identificarlo. Il problema non era la scelta del nome, ma farlo imparare all’asino. L’animale, infatti, doveva essere educato a rispondere ai comandi del padrone, un po’ come si fa con i cani.
Secondo la vulgata, l’asino è un animale testardo e tosto di comprendonio. In realtà così non è, perché è stato dimostrato che è un animale intelligente, ma ha da sempre appiccicata questa etichetta addosso, tanto che il famoso Collodi ci ha costruito pure la storia di Lucignolo e Pinocchio. Or dunque, come fare per fare entrare nella testa dell’asino il suo nome? Sempre secondo la credenza popolare, per far imparare all’asino come si chiamava bisognava che almeno tre persone gridassero insieme il suo nome ripetutamente. Questa storia delle tre persone che battezzavano l’asino (gli facevano imparare il nome), col tempo si è trasformata nel detto popolare.
E adesso una breve storiella. Un contadino aveva battezzato il suo asino Matteo. L’animale era particolarmente irrequieto, e morse un ragazzo che lo molestava. Secondo la legge, poiché un animale che mordeva era da ritenersi affetto da rabbia, doveva essere abbattuto. Il contadino disperato lo portò a San Marchícchije (Convento di San Matteo, sul monte Celano, a San Marco in Lamis) e si rivolse al Santo: “Sànde Mattóje míje, fàmme sta gràzzije. A mmè u ciúcce me sèrve pe ffatijé, mànnele na bbenedizzjóne, salvamílle, e jíje te vanghe a ppeccé nu ceròtte tutte i míse” (San Matteo mio, fammi questa grazia. A me il ciuccio mi serve per lavorare, mandagli una benedizione, salvamelo, e io ti vengo ad accendere un cero tutti i mesi).
Un monaco del convento, che aveva sentito la preghiera del contadino nascosto dietro la statua del santo, mosso a compassione, prese l’olio benedetto della lampada che sta sull’altare, tracciò con un segno di croce la fronte dell’asino e cominciò a gridare: “Sànde Mattóje ho fàtte a gràzzije, u ciúcce jóve arraggéte e mmò jí sanéte” (San Matteo ha fatto la grazia, l’asino aveva la rabbia e adesso è guarito).
Di fronte all’autorità ecclesiastica che certificava il miracolo e la guarigione dell’asino, pure le guardie dovettero prendere atto, e l’asino fu ritenuto di nuovo idoneo a stare in mezzo agli umani e, soprattutto per il contadino, tornò a lavorare.
Ma il suo carattere irrequieto era tutt’altro che placato. Non passò molto tempo, e morse un altro ragazzo che lo molestava, e di nuovo la legge intimò al contadino di consegnare l’asino per il suo abbattimento. Il contadino tornò al convento: “Sànde Mattóje, n’jí ca te sí offése ca j’àgghije chijaméte u ciúcce accúme e ttè? Jí penzóve de fé na cósa bbóne… mèh, fàmme n’ata gràzzije, salvamílle, e jíje te prumètte ca vènghe tutt’i míse a mètte a lemòsene ai mùnece” (San Matteo, non è che ti sei offeso che ho chiamato il ciuccio come te? Io pensavo di fare una cosa buona… ebbene, fammi un’altra grazia, salvamelo, e io ti prometto che vengo tutti i mesi a mettere l’elemosina ai monaci).
Anche stavolta, il frate che era nascosto dietro la statua prese l’olio, segnò l’asino e gridò al miracolo, e l’asino si salvò. Ma l’asino aveva quel carattere, e dopo qualche tempo morse un altro ragazzo, e il contadino tornò ancora una volta al convento a chiedere la grazia e a promettere oboli.
Questa volta il monaco, prima di “guarire” l’asino, redarguì il contadino. “Ueh tó! Prumítte e prumítte, ma quà avvanzéme vínde míse de ceròtte e n’annecìlle de lemòsene!” (Ehi tu! Pometti e prometti, ma qui siamo creditori di venti mesi di ceri e un annetto di elemosine!).
“Madònna Sànde!” esclamò il contadino “jí passéte tànda tìmbe, so passéte tànda pellegríne, e zícche a mmé ve jéte a rrecurdé?” (Madonna Santa! È passato tanto tempo, sono passati tanti pellegrini, e proprio di me vi ricordate?)
“Jàveze l’úcchije e uàrde bbune a Sànde Mattóje” rispose il frate indicando la statua “a nna méne tóne a pènne, e all’ate tóne u líbbre. E scríve tutte cóse!” (Alza gli occhi e guarda bene San Matteo, in una mano ha la penna, nell’altra il libro. E scrive tutto!)
AUGURI A TUTTI I MATTEO!