A Reggio Emilia, grazie all’ANP, il 2 giugno 2022 è stata tributata dalla Presidenza della Repubblica la medaglia d’oro ad Osvaldo Fatone, cittadino di Manfredonia, per la sua prigionia in campo di concentramento. A consegnarla al figlio Marcello il Prefetto di Reggio Emilia, Iolanda Rolli.
La storia
Mi accingo a raccontare una storia che ha un finale bello, quello del 2 giugno di questo anno, ma che lascia un po’ di amaro nel cuore, perché un finale non vissuto in prima persona da chi avrebbe meritato viverlo. Mi accingo a raccontare la storia di un ragazzo, chiamato alle armi mentre era universitario, appena ventenne, obbligato a partire per la guerra il 23 luglio del 1943, quando gli Alleati erano già sbarcati in Sicilia e il Fascismo era prossimo a cadere, come sarebbe avvenuto solo due giorni dopo. Di un ragazzo, accademista della Real Marina, che sarà fatto prigioniero dai tedeschi mentre rocambolescamente la sua nave, il “Vulcania”, stava tentando di raggiungere il re a Brindisi, dopo la notizia dell’Armistizio. Di un ragazzo, con indosso la divisa estiva degli accademisti che, da Venezia, venne condotto con un treno da bestie, di quelli che tanti film sulla Shoah ci hanno insegnato a conoscere, in un campo di smistamento. Da lì destinato ad un campo di lavoro, in Austria, dove giunse con la divisa estiva e costretto a lavorare al freddo, quello intenso, che ti congela il sangue, quello che per la disperazione ti fa sbattere la testa contro gli alberi, per non soffrire più. Quindi la scelta di lavorare in miniera; piuttosto la polvere, piuttosto il buio della terra, piuttosto il sentore di un umido tepore, che il bianco accecante della neve, il freddo che ti toglie la pelle di dosso e la forza del pensiero. E nella miniera, polvere, paura, micce inesplose e che esplodono quando ti avvicini, per verificare il perché, e compagni morti, dolore e paura e… sogni. Sogni di casa, di mamma che ti prepara la pasta, di mamma che ti abbraccia e ti consola. E risvegli all’urlo degli aguzzini, all’alba, quando fuori c’è il freddo, il buio e, compagna di sempre, la fame. Poi un giorno quei cancelli si aprono a degli Italiani ben vestiti, con belle divise, che ti promettono che mangerai bene, che tornerai a casa, che sarai nuovamente libero, se solo accetterai di entrare nella Repubblica di Salò. E quel giovane ascolta: e tutto nella sua mente va a rotoli. Tutto il suo mondo in un attimo non esiste più. Quel Duce, amato da bambino, venerato come il padre della patria, che aveva alimentato orgoglio e speranze, un mondo di valori, tutto viene annientato. Cosa venivano a chiedere, quegli uomini vestiti di nero, a dei giovani che stavano patendo le pene dell’inferno? Di salvarsi, tradendo. Di salvarsi, combattendo contro gli stessi italiani. Di salvarsi, imbracciando le armi contro potenziali fratelli. E quel giovane ce l’aveva un fratello che era al Sud, e che, magari, stava combattendo al fianco degli Alleati. Non potevano chiedergli di tradire la terra comune, di tradire il suo popolo. Quel giovane nell’incoscienza dei suoi vent’anni, decise di restare lì, in quel campo, ma di non tradire il “suo” ideale di Patria. Gli cambiarono allora la condizione, da prigioniero di guerra, divenne un internato politico. Passò un altro anno d’inferno e poi la fuga da quel campo, quando ormai i tedeschi ritiravano più uomini possibile da mandare al fronte e impiegavano nei campi di lavoro, come guardiani e aguzzini, i pochi pazzi salvati ai loro programmi di eugenetica. La fuga e in Italia l’arresto da parte dei partigiani, perché scambiato per un fascista; l’internamento, il processo e la dimostrazione, grazie alle lettere che si scambiava con la famiglia e che custodiva in una valigetta, di essere rimasto prigioniero in Austria per tutto quel tempo e di non essere un fascista in fuga. E finalmente l’arrivo a casa, dopo mille e mille peripezie. La vita di quel giovane riprese, ma i ricordi, gli incubi, le paure di quei giorni non lo abbandonarono mai, come non lo abbandonarono mai i postumi delle sofferenze fisiche patite, che gli costarono una malattia con cui dovette fare i conti per il resto della sua vita. C’era però una cosa che gli doleva più di tutte, ed era constatare che il coraggio di tanti ragazzi della sua età, il martirio di tanti giovani, per tanto tempo fu negato, per tanto tempo passò per “repertorio fascista”, taciuto, condannato, infangato, negletto. Le forze armate sbeffeggiate e, per tanto tempo, storie drammatiche di eroismo negate. Questo giovane tacque la sua storia. A volte la raccontava ai suoi alunni, perché la vita lo fece professore e maestro, tante volte la raccontava ai suoi figli, mentre raccoglieva le briciole dal tavolo con un cucchiaio, perché lui quelle “le aveva sognate”, nel campo. Questo giovane, ormai ottantenne, è morto 15 anni fa, ed ancora raccontava quelle storie, che mai sono uscite dalla sua memoria. Raccontava e piangeva. Erano in due, la sua anima ed il suo corpo. L’una raccontava e l’altro piangeva. Ora quel giovane vecchio, che ha nome Osvaldo Fatone, non è più tra noi. Il ciclo della vita fisica si è compiuto, ma la “Madre” non si è dimenticata di lui. Dopo 77 anni, il 2 giugno del 2022, in quel di Reggio Emilia, a quel giovane di quel terribile ieri è stata attribuita una medaglia al valore, per aver contribuito con il suo sacrificio a dare corpo ad un ideale, quello di Patria. I figli gliel’hanno appuntata sulle ali dell’anima, consapevoli che il dolore di una vita ha finalmente trovato un senso ed una giustificazione. Consapevoli che la virtù misconosciuta di tutti quei giovani che, come lui, persero la giovinezza e, in molti casi, la vita per la Patria ha finalmente trovato il giusto riconoscimento.
di Carlotta Fatone