Il mondo dello sport sembra non voler porre mai fine ai propri intenti espansionistici. Da alcuni anni anche i videogiochi ne fanno parte. Una novità che non ha potuto fare a meno di dar adito a qualche polemica, specie in previsione di un possibile ingresso dei videogame tra le discipline olimpiche. Gli sport elettronici, conosciuti ormai in gergo come “esports”, rappresentano l’ultima frontiera dell’intrattenimento professionistico. Lo scopo è quello di sfidare gli altri gamer in giro per il mondo generando nel contempo spettacolo, come succede in tutti gli altri sport. Lo spirito agonistico non manca e il pubblico globale supererà a breve il mezzo miliardo di persone, quasi tutte tra i 20 e i 30 anni. 88 milioni di spettatori provengono dalla sola Cina.
Inutile negare che il boom dei social e delle piattaforme di condivisione video ha fatto la sua parte. In particolare, sono i videogiochi sportivi e di guerra a suscitare attenzione e a risultare competitivi. Le gare possono essere individuali o a squadre, ma arrivare a giocare a così alti livelli non è facile o immediato come si potrebbe pensare. Per diventare professionisti degli esports occorrono ore ed ore di allenamento e va da sé che non tutti i ragazzi appassionati di videogame possono dedicare tanto tempo al loro hobby preferito, specie se presi dallo studio. Chi ce la fa, però, viene proiettato in un contesto organizzato nel migliore dei modi, con tanto di arbitri e telecronisti. Se si sommano i premi delle tante competizioni esistenti, si raggiungono cifre pari a miliardi di dollari che finiscono dritti dritti nelle tasche dei migliori giocatori del globo.
Anche in Italia sono presenti dei gamer professionisti, sebbene il movimento non sia sviluppato come potrebbe esserlo in America o in Asia, patria del videogioco. In ogni caso, nello Stivale il settore registra numeri piuttosto importanti e si parla di un indotto da 50 milioni di Euro annui. Partecipare agli esports non è come giocare da casa, l’impegno va assunto con totale dedizione. Si tratta pur sempre di professionismo. Se così non fosse, le competizioni più prestigiose non verrebbero trasmesse in streaming su Twitch e su Youtube. Anche gli stessi editori di videogiochi si stanno regolando nella progettazione dei nuovi titoli, che devono essere competitivi quanto basta per rientrare nella categoria degli esports.
Là dove le connessioni ad Internet risultano più performanti, gli esports conoscono evidentemente una maggiore diffusione. Ulteriore indizio della mancata consacrazione definitiva degli sport elettronici in Italia. Negli USA l’approccio agli esports avviene già nelle scuole superiori e nelle università, con tornei tra i vari istituti. D’altro canto, è idea diffusa che titoli sparatutto o videogiochi di strategia aiutino a tenere allenata la mente. I “pro player” si destreggiano con naturalezza tra combinazioni di tasti, sanno quali finte riprodurre opportunamente a FIFA e riconoscono al volo le armi su Call of Duty. Niente a che vedere con i numerosi simboli delle slot online o con gli avatar personalizzabili di altri giochi elettronici. Negli esports anche i dettagli visualizzati su schermo possono fare la differenza.
Per diventare professionisti, però, non basta essere bravi, ma serve avere alle spalle una serie di sponsor e una community per farsi notare più facilmente dagli addetti ai lavori. Nel 2021 si contavano 240 milioni di appassionati agli esports in tutto il mondo, ma nel giro di qualche anno si dovrebbe sforare tranquillamente il muro dei 300. In Italia, invece, si contano 1 milione e 620.000 appassionati, un dato che cresce di oltre il 10% ogni anno.