La caduta in picchiata di Franco Landella, diciannovesimo sindaco di Foggia dell’era repubblicana, finito agli arresti per una squallida storia di presunte ruberie e malaffare, si abbatte come un macigno nella Capitanata. Il capoluogo ne esce stordito perché subisce l’onta di un’umiliazione che scalfisce la sua immagine sporcando la sua storia già parecchio compromessa. Ne parlo con dispiacere perché in quel Palazzo ho trascorso molti anni nel tempo andato, al fianco di sindaci operosi che hanno lasciato un segno, da Salvatori a Graziani, da Tavano a Verile, da Agostinacchio a Mongelli. Sapere che quel Palazzo è collassato sulle infamie che le carte degli inquirenti raccontano e che hanno travolto un Consiglio Comunale pieno di inquisiti e qualche faccendiere di troppo, mi deprime. Conosco bene anche Franco Landella anche se non ci siamo mai amati. Una reciproca diffidenza ci ha tenuti sempre distanti, salvo qualche sprazzo di ironia occasionale dettata più che altro dalle circostanze nei rispettivi ruoli. E dire che quel ragazzo non sembrava sulle prime così male. Al netto dei suoi limiti – i miei sono sotto gli occhi di tutti – sembrava in principio ispirare una sorta di freschezza, con quella sua popolarità prorompente capace di generare persino una certa simpatia, pur nell’improbabile tratto culturale, sorretto da un “provincialismo grossier”. Sbaglierò, ma a me sembra che una volta diventato sindaco sia rimasto, come dire, preda, forse inconsciamente, di una metamorfosi che ha fatto svanire quella sua apparente genuinità della prima ora. E nel suo secondo mandato questo mutamento caratteriale lo ha allontanato finanche dal “giovanotto borderline” in cui la stragrande maggioranza dei foggiani si è riconosciuta, votandolo a piene mani e per ben due volte, sindaco di Foggia. Mistero della fede! L’arroganza, la protervia, la iattanza, quel tono spavaldo hanno, credo, preso il sopravvento su una personalità che è parsa sempre più incline a mettere in scena un temperamento ostile e guerresco, contro tutto e contro tutti, dentro e fuori la sua stessa maggioranza, derisa e sbeffeggiata. L’approdo nella Lega, in pieno solleone un anno fa, segna per me l’inizio della sua parabola discendente. Poi il clima si è arroventato improvvisamente. Da un lato le sue pressioni per mettere a sistema questioni di famiglia, “delle donne della famiglia Di Donna”, dall’altro quella sua pervicace azione di scompaginare i gruppi di una maggioranza già fragilissima, piegata su se stessa, lo spingono oltre misura verso un isolamento che diventerà per lui fatale. Il resto è storia recente. L’arrivo della commissione di accesso inviata dal Viminale per capire se anche a Foggia le infiltrazioni mafiose sono entrate nelle stanze del palazzo, le sedute deserte di un Consiglio sempre più in bambola, l’abbandono della maggioranza che lo lascia solo mentre la Magistratura alza il tiro. Infine, quel tentativo estremo di ingessare le cose varando una “giunta farlocca” e pensare, forse, ad una sua auto sospensione dalla funzione per evitare il peggio. Ma è tardi, perché nel frattempo le inchieste precipitano, arrivano gli arresti e, dulcis in fundo, il Commissario Governativo nel Palazzo. È la fine! Così anche Foggia, dopo Mattinata, Monte Sant’Angelo, Cerignola e Manfredonia, capitola sotto i colpi di maglio di chi presidia la Legalità. La quarta mafia è assediata e i campanili sotto osservazione. Segno evidente che la politica funziona poco e male, è ancora troppo permeabile, percepita più come un ceto dominante e non come classe dirigente. E poi ci sono le contiguità, gli affari, le frequentazioni spinose, le insidiose zone grigie. A Mattinata e Monte, con i sindaci Bisceglie e D’Arienzo, ho la sensazione che la qualità dell’offerta politica abbia cambiato marcia. C’è coraggio, voglia di cambiamento. Si sente e si vede. Ora tocca a Manfredonia e Cerignola rialzare la testa, abbandonare vecchie liturgie, rompere con il passato, abbracciare la voglia del nuovo che avanza. Per Foggia la notte sarà più lunga. Ma è meglio che sia così perché solo il tempo potrà lenire le ferite e far nascere una nuova alba.
di Micky dè Finis