di Micky dè Finis
Chiusa la partita elettorale se ne apre subito un’altra. Il governo guidato da Conte incassa un risultato soddisfacente che spegne le velleità di un centrodestra che era partito, se non ricordo male, con l’idea di “fare cappotto” e che invece deve accontentarsi di un pareggio che suona come una mezza sconfitta nascosta tra le beghe interne di una coalizione che sconta il grande limite delle sue contraddizioni. La mia idea è che la vittoria in Campania, Puglia e Toscana abbia un sapore sostanzialmente diverso di quella che Salvini, Meloni e Berlusconi pure incassano in Liguria, nelle Marche e soprattutto nel Veneto dove è la spinta secessionista che lascia il brivido e che dovrebbe invece far riflettere seriamente gli italiani. Questo perché la cavalcata tra sovranisti, populisti e secessionisti incrocia ostacoli invalicabili nelle aree moderate di quel che resta di Forza Italia e nello stesso bacino di Giorgia Meloni, ultimo versante di una destra tutt’altro che disposta a farsi schiacciare da posizioni conservatrici o, peggio ancora, divisive del sentimento identitario nazionale di cui si dichiara custode. Ne deriva che il responso elettorale ha puntellato il Governo, di questo credo se ne debbano fare una ragione tutti, ancor di più per l’esito referendario che premiando largamente il Si, di fatto ha consegnato al Parlamento il mandato di ridisegnare le cose per una platea parecchio ristretta nelle assemblee delle due Camere. Io sono tra coloro che hanno votato No al quesito referendario. Una scelta dettata dal timore, tutt’altro che sopito, che a rimetterci sarà il criterio democratico di un’equa rappresentanza territoriale, come lo stesso Paolo Agostinacchio, giurista e politico di rango idealmente coerente come pochi nella destra, ha sostenuto. E tuttavia, leggo in quel 30% di elettori che hanno scritto No sulla scheda una serie di ragioni non folli poste a presidio di valori costituzionalmente garantiti che rischiano di essere compromessi se il Legislatore non riuscirà a mettere mano ad una riforma seria, che personalmente auspico in chiave proporzionale. In vero la spinta referendaria non poggiava su motivazioni giuridico-costituzionali quanto su quell’urlo inquietante che gridava “mandiamoli a casa”, generato da una nauseante antipolitica, motivo per il quale adesso riterrei più giusto, più logico, più saggio che si sciogliessero le Camere per rispettare la volontà popolare. È un aspetto delicato sul quale il Capo dello Stato dovrebbe, a mio sommesso parere, mantenere fede per quello che è scritto nel dettato costituzionale perché questo Parlamento non è più legittimato dal popolo che è sovrano e che ha deposto nelle urne la sua volontà. Quanto alla Puglia, la vittoria di Emiliano è talmente larga da non consentire l’accesso a sofismi di sorta. Fitto ha rimediato una mazzata troppo cocente. Lo sa bene il centrodestra, perché la distanza percentuale dal suo avversario è tanto larga da spingere a condividere l’ipotesi che gli elettori hanno democraticamente scelto di premiare il buon governo anche oltre le motivazioni che offriva il centrosinistra. Il punto è che Raffaele Fitto ha svolto il suo ruolo con innegabile impegno, ma la coalizione non ha retto l’urto, non ha dato tutto quel che poteva, tenuto conto che i voti del suo candidato premier superano di circa 30 mila voti quelli raccolti dalla coalizione. Dunque ci sono cose che non quadrano, che non tornano, perché i numeri dicono altro. La mia lettura mi spinge però a dire altro. Il calo di consensi del Movimento 5 Stelle, che perde ben 6 punti, fa capire che le ragioni del voto utile hanno prevalso sulla miopia politica messa in campo nella Puglia dai grillini, capaci di costruire la propria sconfitta con una tenacia che è il contrario della logica. Non a caso ora infuoca la polemica interna e toccherà a Grillo sedare i tumulti e mettere in sicurezza un patrimonio elettorale che personaggi come Dibattista rischiano di far svanire come accadde per l’Uomo Qualunque di Giannini. Ma il vero sconfitto è lui, Matteo Salvini, che in Puglia porta a casa un magro bottino che spiazza gli alleati, travolti in una disfatta che, paradossalmente, riesce persino a dare ossigeno ad una moribonda Forza Italia capace di realizzare una seconda, disperata “operazione Lazzaro”. La verità è che Michele Emiliano ha vinto sia strategicamente sia tatticamente, stringendo un patto di ferro con i Popolari di Massimo Cassano (quasi 100 mila i voti portati in dote) e utilizzando una tecnica invasiva nelle aree del consenso non priva, bisogna dirlo, di approcci densi di mediazioni tra i corpi intermedi del tessuto collettivo ed imprenditoriale. Per dirla in soldoni, una politica predicata con certosina filosofia anche mettendo in opera quel vecchio teorema misto degli affetti e delle convenienze che, come diceva il buon Fanfani, allunga la vita. Ed Emiliano se l’è allungata di ben cinque anni! La Capitanata comunque porta a casa 10 consiglieri, davvero un record. Un gran successo per il Pd che incassa tre seggi grazie ad un Raffaele Piemontese, campione di consensi, con circa 22 mila voti. Torna in regione anche l’avvocato Paolo Campo, figura sempre di spicco nell’agone politico. Sempre per il Pd arriva Teresa Cicolella, mentre tra le matricole del centrosinistra approdano a Bari anche Antonio Tutolo, già sindaco di Lucera e Sergio Clemente, il più veloce nella pattuglia popolare di Massimo Cassano, personaggio che a Bari peserà come un macigno. Per il centrodestra tornano in Consiglio Giandiego Gatta per Forza Italia, Giannicola De Leonardis con Fratelli d’Italia, oltre le matricole Paolo Dell’Erba per la Puglia Domani e Joseph Splendido, leghista. Torna in consiglio, sia pure con fatica, anche Rosa Barone per il Movimento Cinque Stelle. Tra gli sconfitti brilla su tutti il tonfo di Leo Di Gioia, che evidentemente paga solo adesso lo scotto di un trasformismo talmente veloce che neanche i suoi elettori sono riusciti a capire. Il suo insuccesso è stato così devastante da mettere nel rischio il seggio per Forza Italia. Adesso il tema è un altro: riusciranno questi dieci rappresentanti della Capitanata a far contare le ragioni del territorio? La domanda si pone, anzi si impone perché segnali di fumo già si levano in alcuni campanili. A cominciare dal comune di Foggia dove un sindaco equilibrista di nome Franco Landella, abbagliato in piena estate dalle luminarie salviniane, dovrà ora fare i conti con una maggioranza sul piede di guerra che già reclama una verifica all’indomani del voto, senza poi parlare del futuro che aspetta Manfredonia, ancora sotto l’onta di un commissariamento che la buona politica è chiamata a risanare con scelte libere da condizionamenti, tanto forti quando credibili per tenere lontano gli avvelenatori dei pozzi della politica, sempre in agguato.