Che fine hanno fatto i volti nel tempo della pandemia? L’antropologia del volto sta cedendo il posto all’antropologia della mascherina?
prof. M. Illiceto
Questa pandemia sta cambiando molte cose. Sta spazzando un mondo e ne sta annunciando un altro, nuovo e inedito, pieno di incertezze ma forse anche ricco di opportunità per ricominciare in modo diverso. Abitudini, modi di vivere, modi di pensare, ma anche attese e progetti: tutto è stato messo in discussione. Rimescolato. E’ come se in una corsa ci trovassimo di nuovo ai nastri di partenza.
E’ cambiata l’organizzazione del tempo (vedi le lunghe file di attesa ai supermercati) come anche la percezione degli spazi, divenuti sempre meno sociali e sempre più privati, (come lo stare a casa in quarantena). E di questo ne hanno risentito la vita familiare, l’esperienza lavorativa, i rapporti di amicizia e perfino la vita religiosa.
Si stanno perdendo certe realtà e se ne stanno prospettando altre, per le quali forse non siamo ancora preparati. Ci vuole tempo, pazienza e soprattutto voglia di adattarsi ai nuovi ritmi, ai nuovi processi, a nuovi modi di gestire le nostre relazioni, i contatti. Dobbiamo tutti imparare a fare un passo indietro per poter consentire a tutti di fare un passo avanti. Noi in relazione agli altri e gli altri rispetto a noi.
Ma l’esperienza che forse più ci sta sconvolgendo riguarda l’uso delle mascherine. A parte le difficoltà relative al loro reperimento e le speculazioni economiche o le truffe che sono state realizzate per poterle piazzare, c’è da dire che ci troviamo davanti ad una vera e propria rivoluzione sociale, emotiva e affettiva, psicomotoria. Direi addirittura antropologica, in quanto ormai questo semplice pezzo di stoffa si sta rivelando una vera e propria protesi umana, che si sta talmente fondendo con il nostro corpo che ormai pare sia parte di esso e, di conseguenza, anche di noi. Non una semplice suppellettile che fa parte del vestiario, ma un nuovo organo che sta entrando nella nostra stessa pelle.
E così la mascherina, mentre ci offre garanzie in campo igienico, salvandoci la vita, allo stesso tempo sta cambiando il nostro modo di essere appunto “umani”, modificando la stessa percezione che ciascuno ha di sé e degli altri, del proprio corpo e di quello altrui. La mascherina questa specie di “Deus ex macbina” che sta modificando i meccanismi della prossimità e l’esperienza dell’alterità. Dell’intera socialità. Siamo forse giunti nell’era del postumano, come vanno teorizzato alcuni filosofi contemporanei?
Certo è che andare in giro con la mascherina ci costringe a non poter guardare in viso l’altro che ci passa accanto, per poterlo riconoscere e salutarlo. Antropologicamente parlando, stiamo forse vivendo una – temporanea o definitiva? – “scomparsa dei volti”? Mi chiedo, da filosofo, che fine faranno i volti nel tempo della pandemia? Volti coperti e nascosti ma comunque distanti. Sì protetti, ma, ahimè, anche irraggiungibili. Vicini e accanto, ma ahimè anche lontani. Velati e ahimè forse anche ripiegati e dismessi.
Ora sarà più facile ignorarsi. Aumenterà l’invisibilità. Una sorta di latitanza che ci autorizza a non fermarci per posare gli occhi su chi ci passa accanto. Il fatto è che con l’invisibilità rischia di aumentare anche l’indifferenza, la non curanza. Perché è sui volti che è scritta la grammatica, tutta da decifrare, della nostra diversità e, di conseguenza, della nostra unicità e irripetibilità. Il nostro bisogno di comunità.
Volto in greco, (πρόσωπον, prósōpon) significa persona. Indica il volume della mia dignità e il luogo simbolico dei miei diritti. Il filosofo ebreo E. Levinas, che sul tema del volto tanto ha scritto, diceva che è sul volto che è inciso il più grande dei comandamenti: “Non uccidere!”. Diceva che il volto è appello. Cioè richiamo che mi inchioda alle mie responsabilità. Il volto è sì singolare, ma è anche luogo sociale e comunitario, perché è sul volto che ciascuno è esposto all’altro. Ogni volto è ri-volto verso qualcuno che è chiamato a guardarlo, a raccoglierne lo sguardo. Il grido. A volte anche il silenzio. Appunto: l’appello.
Tramite i volti ci incontriamo e ci accogliamo. Ci conosciamo e ci riconosciamo. E’ grazie ai volti che possiamo costruire lo spazio del Noi. Il volto ha il suo linguaggio. E’ la parola prima della parola. I volti parlano senza aver bisogno di parlare. E’ dove tutto viene detto senza che lo si dica. Tutti ci portiamo dentro il volto della madre che ci ha tenuto in braccio.
Ma ora è arrivata la mascherina che ci distanzia e, allontanandoci, ci protegge. Perciò facciamo bene a usarla. Esteriormente, rendendoci tutti uguali, però potrebbe farci percepire come oggetti fatti in serie, posti in una sequenza anonima che sa più di clonazione sociale che di interazione interpersonale. Più di separazione che di distinzione, più di isolamento che di appartenenza. Più di rottura che di partecipazione collettiva.
La questione non è se la distanza ci salverà o meno, ma quale distanza ci salverà. Per tale motivo, il saper gestire la distanza sarà una delle nuove sfide che questa pandemia ci consegna. Infatti, non tute le distanze sono uguali. C’è distanza e distanza. Poter gestire le distanze richiede il saper distinguere i vari tipi di distanza. Se le confondiamo, rischiamo di dare alla mascherina il potere di ignorarci a vicenda. E se così faremo, non usciremo mai dall’isolamento, perchè fraintenderemo il senso da dare al distanziamento sociale, interpretandolo come una forma di atomismo sociale.
E allora utilizziamo la mascherina, ma vi prego non permettiamo a queste protesi di cancellare i nostri volti. Se le mascherine ci salveranno dal coronavirus, tocca a noi salvare i volti dalle mascherine. Perché, quando tutto sarà finito, i volti torneranno.
Perciò, come recitava il titolo di uno degli ultimi libri del filosofo urbinate molto caro a noi manfredoniani, Italo Mancini, auspichiamoci che “Tornino i volti”. Solo allora scopriremo che è da un volto che veniamo ed è verso un volto che andiamo.