Mai come in questi giorni il mondo è stato alla finestra. Mai come in queste settimane ci affacciamo alle finestre delle nostre case. E non per vedere il mondo passarci innanzi indifferente, o davanti al nostro totale disinteresse, ma per posare gli occhi su tutto ciò che ci è stato tolto e che tuttavia ancora di più oggi sentiamo sempre nostro. Sentiamo che ci manca.
Dalla finestra siamo stati costretti a vedere da lontano i nostri cari nonni che dentro bare solitarie sono stati caricati su carri militari freddi e anonimi, per percorrere da soli l’ultimo tratto di strada della loro vita, per avviarsi verso il luogo del loro definitivo e meritato riposo. Una morte nella morte che amplifica il dolore di chi, impotente, è rimasto senza poter neanche regalare un fiore, una parola di addio e di conforto, o un ultimo abbraccio che potesse chiudere in compagnia il cerchio della propria vita.
La finestra da luogo di indifferenza si sta trasformando in luogo di ricerca. Da luogo di dimenticanza e di rimozione – dove fino ad ora abbiamo trovato mille scuse per lasciare al proprio destino il mondo fuori – a luogo di memoria, per non dimenticare e non dimenticarci. Se fin’ora dalla finestra guardavamo un mondo che in fondo non ci interessava perché non ci riguardava, ora stiamo lì imperterriti ad aspettare notizie positive per vedere finalmente il mondo rialzarsi.
Se fin’ora vi siamo stati per assistere da spettatori neutri al naufragio altrui, in questi giorni pare che siamo noi stessi a naufragare. Questa epidemia rappresenta un’esperienza nuova che possiamo paragonare, usando una bella metafora del filosofo H. Blumemgerg, a un “naufragio con spettatore”. Ma la finestra ha il potere grande di trasformare un naufragio in ripartenza. Gli occhi smarriti in sguardi intensi. La nostra impotenza in costruttiva resilienza.
Perché ogni finestra ha il sapore della soglia. Una sorta di confine mobile che si sposta di continuo a seconda dello stato d’animo che ci accompagna in queste giornate di clausura forzata. Mai fisso su se stesso. In continuo movimento, alla ricerca di spazi cancellati e di orizzonti dimenticati. Di promesse non mantenute che messe alla prova dal generale disincanto possono però di speranze deluse.
La finestra è il luogo dove possiamo salvare i nostri desideri e le nostre passioni. La nostra immaginazione e la nostra creatività. Attraverso la finestra il mondo può ricevere nuova luce e nuovo colore. Una nuova forma che viene da dentro di noi. Per trasformare la nostalgia in attesa, il tempo della solitudine in gestazione collettiva.
Perché la finestra ci salva dagli spazi chiusi. Ci dona la trasparenza di ciò che è comune. Trasforma le ferite in feritoie, per fare di questo tempo di dolore un unico e grande crogiuolo in cui ritrovare la forza di ricominciare. Una sorta di cerniera che unisce il dentro e il fuori e che, anche se distanti, non ci separa, ma che nella lontananza esige già fin d’ora che mettiamo in pratica nuove forme di prossimità.
Il grande filosofo Leibniz ci paragonava a delle monadi. Una sorta di mondi chiusi senza porte e senza finestre. Incomunicabili tra di loro. Bastanti a se medesimi. E invece no! Non siamo mondi chiusi. Le finestre ce le abbiamo sia per guardarci dentro che per guardare fuori. Sia per non permettere alla realtà di soccombere alla nostra assenza, sia per non permettere a noi stessi di rinunciare a lottare.
La finestra è il luogo dell’oltre. E l’oltre, come ho scritto in un mio libro, è il luogo dell’altro. Luogo di deponenza che ci fa mendicanti di quell’essenziale che ci libera dal superfluo. Alla finestra la vita è come sospesa, mentre il mondo pare ci stia scappando dalle mani.
Alla finestra possiamo mettere un fiore o una pianta al mattino, simbolo della vita che, risvegliandosi, vuole essere accolta e amata, e mai sprecata o calpestata. Oppure mettere un cero alla sera, simbolo di una vita che si ritira e si raccoglie per mettersi in attesa sena alcuna pretesa.
La finestra è come la nostra coscienza. Una sorta di fessura in cui far arieggiare le nostre azioni spesso soggiogate a inutili capricci. Per capire in che cosa abbiamo sbagliato e in che cosa dovremmo invece cambiare. Non per sentirci in colpa rispetto ai nostri errori, ma per responsabilizzarci ancor più nei confronti delle nuove sfide.
La finestra ci viene a dire che il mondo ci è stato soltanto affidato e mai definitivamente dato. Che non va posseduto o conquistato ma custodito per essere rispettato e condiviso.
E se mai un Dio verrà, passerà non tanto dalle nostre porte, ma dalla finestra. Le porte infatti catturano, le finestre lasciano libero chi vi passa accanto. E non verrà nella veste di un Dio onnipotente dal quale pretendere miracoli insperati. Non verrà nella forma di una evidenza che ne proverà l’esistenza. Non darà ragione né ai credenti miracolando né ai non credenti tacendo. Al contrario, se verrà, lo farà nel chiaroscuro di una presenza discreta e allo stesso tempo incerta. Tra nascondimento e svelamento. Sicuramente, se verrà, assumerà la veste di uno straniero che chiede ospitalità.
E allora, in questi giorni guardate il mondo dalla finestra, perché è da lì che un pezzo di cielo ci entrerà di nuovo dentro. Non tanto per portare stelle, ma per risvegliare quelle che in noi giacciono addormentate. Accesi dentro, finalmente usciremo fuori e accenderemo nuove luci che illumineranno non solo le nostre case e i nostri spazi privati, ma le strade e le piazze di tutte le città sparse nel mondo intero.
Facciamo dunque nostro il monito della scrittrice ebrea morta ad Auschwitz E. Hillesum: “Quando si ha la forza per le piccole cose, la si ha anche per quelle grandi. E in futuro tutto procederà da sé, e le energie saranno state liberate per le cose che contano davvero“.