Era il mattino del 12 ottobre scorso – poco più di un mese fa – quando Hevrin Khalaf, giovane donna politica curda attivista per i diritti delle donne, fondatrice del Partito del Futuro e ispiratrice di un possibile dialogo tra le parti in conflitto per la pace in Siria, veniva barbaramente assassinata dalle squadracce jihadiste sunnite al soldo del satrapo turco Erdogan. I principi che ispiravano l’azione politica di Hevrin, (laicità dello stato, formazione di una società rispettosa in egual modo delle differenti identità culturali e religiose, parità di diritti e opportunità per uomini e donne) ora faticosamente portati avanti, nel silenzio del mondo, dalle sue compagne e compagni di lotta erano e sono quanto di più lontano e, proprio per questo, temibile possa immaginare uno spregiudicato dittatore consapevole di poter contare non solo sul fiume di denaro incredibilmente erogatogli dalla pavida Europa ma anche e soprattutto sulla memoria corta e, per così dire, a corrente alternata, di un Occidente per il quale i diritti e le libertà tanto decantati non sono, in realtà, uguali per tutti. Dimostrazione evidente di ciò sono proprio le vicissitudini di un popolo – quello curdo – di oltre 35 milioni di persone, sparso tra Siria, Iraq e, appunto, Turchia, per il quale non si può certo dire che si sprechino l’attenzione e le conseguenti mobilitazioni che abbiamo invece visto nel corso dei decenni manifestarsi in maniera perfino ossessiva nei confronti di altri. Qui però non si vuole affrontare una complicata questione geopolitica, ma evidenziare un punto drammatico segnalato dai media al momento del delitto, ma non abbastanza approfondito, o forse frettolosamente archiviato: la specificità della efferata violenza usata per privare della vita e della dignità umana una donna considerata “inaccettabile” per le sue idee e la chiarezza delle sue posizioni nel discorso pubblico del suo paese e non solo. E, dunque, così muore una donna di trentacinque anni nel 2019: l’auto su cui viaggia Hevrin viene bloccata lungo la strada che va verso il confine con l’Iraq; l’autista cade subito crivellato di colpi, mentre la donna viene trascinata fuori dall’auto, violentata e “uccisa a colpi di pietre”, forse non nello stesso luogo in cui avviene l’agguato (Settecorriere.it). Non è chiaro se le abbiano sparato prima di sfigurarla, ma ciò che conta è la modalità precisa, storicamente e, purtroppo, religiosamente codificata con cui le hanno simbolicamente – oltre che fisicamente, tolto la vita. Lapidata: questa è la parola che dice senza pietosi quanto inutili eufemismi il supplizio che le è stato inflitto – quello cioè riservato alle impure e ribelli che osano scegliere qualcos’altro rispetto a ciò che la sorte – decisa da altri, riserva loro: il silenzio, il patimento passivo di ogni sopruso, la cancellazione materiale e psicologica sotto mucchi di stracci neri (o, in altri contesti, nel vuoto di insensate nudità) il cui significato ultimo è uno solo: “Tu non esisti”.
Naturalmente, poiché una delle caratteristiche salienti della barbarie contemporanea a tutte le latitudini contempla l’uso anzi l’abuso delle tecnologie imperversanti, gli aguzzini hanno pensato bene di postare ben due video del massacro di Hevrin, in uno dei quali pare li si veda mentre scalciano il suo cadavere dicendo: “Questo è il corpo del maiale”, a conferma del fatto che non si tratta ”solo” di un avversario politico eliminato nel noto gioco – soprattutto maschile, del potere: “Uccidi o sei ucciso”. Quello di Hevrin è stato una sorta di femminicidio rituale, con un chiaro intento per così dire “pedagogico”: una donna che osa mettersi in gioco con una precisa visione del mondo, con una proposta di vita civile e politica che diverge da quella prevalente soprattutto in alcune aree del mondo, va eliminata in modo tale da cancellarne la dignità di persona per riportarla, da morta, al silenzio e alla non esistenza a cui da viva aveva tentato di sfuggire.
Non è una storia lontana quella di Hevrin. E’ al contrario una storia che ci riguarda da vicino, di violenza cruda e sopraffazione ferina, politica in quanto sessista e misogina, chiaramente diretta a distruggere ciò che le donne come Hevrin e le sue coraggiose amiche impegnate in una difficilissima lotta, possono e vogliono costruire, anzi, dare al mondo. Ricordare Hevrin non è perciò un allontanarsi dall’assillante quotidiano stillicidio di violenza femminicida che avviene nel nostro mondo “liberato” ma non redento, nelle relazioni tra i generi, dall’arcaica pretesa del possesso e del dominio sull’altra/o. E’ invece un tentativo di allargare la visuale sulle possibili relazioni costruttive tra le donne del mondo per dare un senso umano e civile ad una realtà globale o globalizzata che, comunque la si chiami e consideri, di questo senso appare spesso del tutto priva.
Mariapina Masulli