Domenica 24 Novembre 2024

Dall’attesa degli anni d’oro ai Nastri d’oro. La protesta delle donne di Manfredonia

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Che si tratti di una persona o di una città, in ogni storia c’è sempre un momento che fa da spartiacque creando un prima ed un dopo. Per Manfredonia quel momento è stato segnato sicuramente nel secolo scorso da una scelta che, col senno del poi, è stata considerata scellerata, ovvero di puntare con l’ex Enichem ad un’industrializzazione da attuare ad ogni costo, contro la volontà popolare, ma specialmente contro l’identità culturale e paesaggistica di un territorio.

Nel 1965, per la legge del piano di coordinamento degli interventi pubblici nel Mezzogiorno, la piana di Macchia era stata identificata quale zona ad “economia turistica”, in vista della salvaguardia e dell’utilizzazione degli enormi valori naturali, paesaggistici, culturali dell’intero Gargano.

Presso il Comune di Monte Sant’Angelo, di cui Macchia è frazione, era stato depositato il progetto di ciò che sarebbe dovuto essere uno dei più grandi villaggi turistici del Gargano. Subito dopo, invece, vi s’impiantò un petrolchimico che in pochi anni diede l’illusione di produrre ricchezza ed occupazione sul territorio, ma che poi creò effetti irreversibili con un rovinoso inquinamento di cui ancora oggi Manfredonia subisce le conseguenze e con la netta trasformazione del paesaggio.

Ma cosa accadde? La società statale ENI costruì alla fine degli anni ’60 una fabbrica di sostanze chimiche nel comune di Monte sant’Angelo, ma ad 1 km da Manfredonia. Non vi furono consultazioni pubbliche e, seppur i consigli comunali di Manfredonia e Mattinata si opposero, l’opinione pubblica era per buona parte ubriacata dalla voglia di riscatto occupazionale.

L’apertura dell’impianto, è vero, inizialmente portò occupazione e quindi benessere. Ma quasi subito cominciarono problemi dovuti alla sicurezza sul lavoro e gli incidenti che si susseguivano negli impianti dopo un po’ iniziarono a far tentennare anche i più incalliti sostenitori dell’industrializzazione. L’episodio più importante si ebbe il 26 settembre 1976, quando, con l’esplosione di una torretta d’arsenico, una nube di 32 tonnellate di anidride arseniosa si riversò sulla città. Per l’ex Enichem fu l’inizio della fine.

Seppur i vertici dell’Eni ed alcuni politici tentarono di minimizzare la gravità della situazione, a Manfredonia ci fu un’altra esplosione: quella del risveglio delle coscienze. Nacquero comitati per mandare via il ‘mostro’ e per la prima volta a Manfredonia prese forma e forza un’associazione di sole donne, Bianca Lancia, che con determinazione e fermezza scese in campo per urlare il proprio dissenso. Le donne di Bianca Lancia divennero negli anni ’80 quasi delle eroine nella città in riva al Golfo, mentre sui muri apparivano scritte sempre più eloquenti come il famoso motto: CENUA JE (trad.: se ne deve andare).

Tra forza lavoro ed indotto, una bella fetta della popolazione era comunque impegnata nello stabilimento dell’ex Enichem e per anni si ebbe un estenuante braccio di ferro nella scelta tra salute e lavoro. Nel 1995 il dott. Maurizio Portaluri, radioncologo dell’ospedale San Giovanni Rotondo e attivista di Medicina Democratica, assieme all’ex operaio Nicola Lovecchio, effettuò un’indagine epidemiologica dal basso, mostrando un eccesso di tumori per i lavoratori e denunciando venti anni di violazioni dei loro diritti. Ne seguì un processo penale che vide coinvolti contro i vertici Eni centinaia di operai, numerose associazioni, il comitato di donne Bianca Lancia ed il Comune di Manfredonia. Il processo terminò nel 2011 con l’assoluzione totale dell’Enichem e, nonostante la morte di decine di operai e dello stesso Nicola Lovecchio, non vi fu alcun riconoscimento di disastro ambientale. Solo il comitato delle donne di Bianca Lancia nel 1998 ottenne dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo un risarcimento per “danni morali” dovuti alla mancanza di trasparenza nella gestione della fabbrica.

La produzione dell’ex Enichem terminò nel 1993 e dopo circa vent’anni Manfredonia divenne Sito di Interesse Nazionale per le bonifiche per rimuovere i rischi ambientali dovuti alla presenza di una grande quantità di rifiuti tossici interrati. Della bonifica, tuttora in corso, si occupa la Syndial, che altri non è che la stessa Eni. Pertanto, in questa strana Italia dove tutto gira al contrario, non solo il colosso industriale non venne sanzionato, ma venne (e viene) anche pagato per rimuovere l’inquinamento che essa stessa ha causato.

Per quanto riguarda i decessi, l’ex sindaco di Manfredonia Angelo Riccardi in collaborazione con il CNR e coinvolgendo attivamente un comitato cittadino, ha dato il via nel 2013 al primo importante studio epidemiologico sul territorio per studiare le cause in maniera approfondita; i risultati hanno finalmente cominciato a consegnare risposte ad interrogativi rimasti per anni in sospeso, accertando responsabilità rimaste a lungo solo congetture.

Smantellato l’ex Enichem, nel 1998 si decise di percorrere ancora la strada dell’industrializzazione con il Contratto d’Area, che portò ad aprire decine di fabbriche e ad assumere migliaia di lavoratori. Finito il periodo dei finanziamenti statali, però, gli imprenditori del Nord Est, che erano venuti ad investire in questa parte della Capitanata, lasciarono i dipendenti e le loro famiglie con un palmo di naso, mettendo ancora una volta bruscamente fine ai sogni di rinascita di un territorio che ostinatamente si è accanito a puntare sul cavallo sbagliato, ovvero sull’industrializzazione.

Certo, la storia non si fa con i se e con i ma, però chissà cosa sarebbe stata Manfredonia senza l’Enichem, senza il porto industriale per servire un’area industriale mai decollata che oggi cade letteralmente a pezzi, e senza quei nastri d’oro balzati sui media nazionali per un incredibile giro di tangenti che gli valse appunto il dorato appellativo, e mai utilizzati e che, come diceva Leopardi nel suo Infinito, ‘da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude’, a memoria perpetua di un territorio stuprato e ancora alla ricerca della propria identità.

Maria Teresa Valente

Fonte: Bonculture

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