Il filo sottile che lega due sconfitte epocali hanno in comune lo stesso numero: il 4 – dicembre – nel caso della sconfitta al referendum costituzionale del 2016, e – marzo – nelle elezioni politiche del 2018. I segnali vi erano tutti, e con il voto delle Politiche si sono palesati in maniera fragorosa. Il centro-sinistra non esiste più ed è crollato sotto il piccone del Movimento 5 Stelle, che lo ha reso irrilevante e residuale, relegando la sinistra progressista a semplice sparring partner. Il Mezzogiorno d’Italia, sparito dall’agenda di governo in questi anni, ha presentato il conto con gli interessi: il plebiscito del Sud per il partito di Di Maio non è altro che l’immaginabile conseguenza di un abbandono nei fatti, oltre che nelle parole. E se il Nord premia la nuova destra-centro di Salvini e persino la rossa Emilia Romagna abbandona (insieme a tutto il centro tradizionalmente di sinistra, salvo la Toscana, e per la prima volta nel dopoguerra), è evidente la crisi, non solo di cifre, di un partito a vocazione maggioritaria. Il peggiore risultato della storia del Partito Democratico (persi un voto su quattro rispetto al già deludente 2013, con il centrosinistra che passa da un terzo dei voti a poco più di un quarto) diviene invece trionfo per i 5 Stelle, che passa da un quarto dell’elettorato ad un terzo con il 48% in Sicilia, il 44% in Puglia, il 54% a Napoli ma anche 27% in Emilia Romagna e circa un quarto ovunque, e per la Lega di Salvini che copre il deludente risultato di Forza Italia con cifre eloquenti: 20% in Emilia Romagna e Liguria, 14% in Abruzzo, 17% nelle Marche), passando dal 4% del 2013 al 18% attuale. Dall’Italia tripolare del 2013 si è passati, in una sola elezione, ad un’Italia bipolare, con Lega e Movimento 5 Stelle, due forze dichiaratamente “anti-sistema” ed orgogliosamente populiste, che insieme raggiungono la metà dell’elettorato e che rendono Forza Italia e Partito Democratico forze minoritarie. Ma ciò che rende questa elezione uno tsunami è la consapevolezza della marginalità del centro-sinistra, del Pd come di Liberi e Uguali, che doveva triplicare i voti di Sel e si ritrova a raggiungere di un soffio il quorum nonostante gli esuli del Pd ed i presidenti uscenti di Camera e Senato. L’orto di Manfredonia diviene così quello del Sud, senza nessuna miracolosa differenziazione di sorta: già nel 2013 il Movimento di Grillo fu primo partito alla Camera, ma la coalizione di centro-sinistra fu nettamente quella vincente, con il Pd primo partito al Senato; ancora nell’anno di grazia renziano 2014, le Europee furono un trionfo da 50% di voti; ancora solo nelle ultime primarie Pd, Manfredonia fu ancora un avamposto “orlandiano”, facendo pensare ad un controllo territoriale ancora molto presente. Per questo l’epocale sconfitta del centro-sinistra sipontino ha le sembianze di una rivoluzione, ancora non sappiamo se definitiva o in itinere. I fattori possono essere molteplici, a partire dall’onda d’urto emotiva ed emozionale del trionfo nazionale del M5S, ma hanno i lineamenti di un travolgente segnale. I numeri sono freddi, ma rendono l’idea di cosa sia accaduto nel collegio Manfredonia-Cerignola e nella città sipontina in generale: alla Camera dei Deputati (proporzionale) ottiene il 49.01%. Forza Italia e Pd insieme appena il 36%, con appena 4.151 voti (14,2%) voti ai Dem contro i 6.271 di Forza Italia (21,45%) e i 14.332 del M5S. Ancora più netto il divario del Senato (proporzionale): 5 Stelle al 48,93% (13.087 voti) e Pd (3712 voti) e Forza Italia (5.402 voti) insieme neanche al 34%. Nel collegio uninominale della Camera Antonio Tasso (5S) al 48,22%, Gatta (CDX) al 31,5% e Bordo (CSX) al 15,82%. Per Tasso 14.800 voti, 9.669 per Gatta e 4.855 per Bordo: più prosaicamente due navigati mestieranti della politica regionale (e nazionale) non raggiungono neanche i voti del solo Tasso. Stessa cosa dicasi per le liste: Pd e Forza Italia lontani anni luce dai pentastellati. Nell’intero Collegio, il neo deputato Tasso 43,80% con 50.491 voti (soglia più alta dei 48.693 di lista) e Gatta che doppia Bordo (34,30% contro 17,10%, 39.536 voti contro 19.718). Nell’uninominale Senato Quarto (5S) al 48,96%, Silvestris (CDX) al 29,93% e Gentile (CSX) al 16,09%. Numeri clamorosi che portano ad una profonda riflessione e che dimostrano un solco incolmabile tra politica e territorio: un parlamentare uscente, a Roma dal 2006 e che a Montecitorio ci tornerà per il paracadute del plurinominale, al primo test col proprio nome sulla scheda, non perde ma deraglia: neanche 5000 voti nel proprio feudo elettorale. Il tentativo, neanche troppo convinto, di inasprire i toni della contesa con la vicenda giudiziaria di Tasso, non ha spostato nulla in termini di voti. Gatta, che da parte sua avrebbe potuto sfruttare l’emorragia di voti del Pd, ha sì doppiato Bordo ma non ha minimamente scalfito i numeri astronomici di Tasso, nonostante una presenza radicata sul territorio ed un’esperienza lunga da consigliere regionale di opposizione. La permeabilità e la leggerezza del voto nazionale su scala sipontina è sempre stata una costante piuttosto consolidata, ma un vento così poderoso non può che venire da lontano: una città che si sente abbandonata, chiusa tra un’economia in recessione ed una politica locale in crisi di consenso e di identità. Manfredonia, la Puglia ed il Meridione non sono contesti isolati, analizzabili come compartimenti stagni rispetto alla situazione nazionale: i tagli continui dei trasferimenti statali rendono i Comuni enti esattori e non più propositori attivi di politiche di sviluppo; diventa così ovvia l’insoddisfazione verso Governo centrale e comunale, accomunati da anni dalla stessa sigla politica, quel ceto politico lontano ormai dalle problematiche “carnali” di cittadini in perenne affanno, e che Bordo ha plasticamente impersonificato nell’immaginario dell’elettore locale. La Buona Scuola, il Jobs Act, persino il decreto vaccinazioni: tutte misure che hanno creato, oltre ogni ragionevolezza, una forbice insanabile tra partito e città e che il Movimento 5 Stelle ha saputo intercettare in maniera inesorabile. L’esito manfredoniano non è altro che il Sud che non vuole più saperne e che chiede “cambiamento”, ovvero la vera rottamazione promessa ma mai attuata. La protesta diviene così effettiva e si manifesta in un movimento non partito senza strutture sul territorio e che vedrà il proprio parlamentare eletto sbarcare probabilmente nel gruppo misto per una questione tra il risibile ed il ridicolo. Ma questo non è importato praticamente a nessuno, anzi ne ha rafforzato quell’essenza liquida che li rende capace di intercettare quell’insoddisfazione covata da anni. Il reddito di cittadinanza promesso, i tagli agli emolumenti dei politici, i soldi restituiti, quel misto di “onestà” e “trasparenza” che travolge una classe politica che non ne ha saputo interpretare la forza e l’incisività, sottovalutandone il consenso, tra ironia e sarcasmo per congiuntivi e improbabili personaggi. Domani nulla sarà più come prima: per la prima volta dal 2011 il Pd sarà all’opposizione e tra il Movimento 5 Stelle ed il centrodestra a trazione salviniana qualcuno dovrà sobbarcarsi l’onere di governare, magari tra equilibrismi ed opportunismi, ed il parlamentare di maggioranza di Manfredonia sarà un cittadino che si troverà probabilmente nel gruppo misto, abiurato dal Movimento con il quale ha conseguito lo straordinario risultato. Nulla sarà più come prima, perché il centrosinistra non esiste più è sarà difficile rendere bersaglio ciò che ora è un fantasma.
Redazione di ManfredoniaNews.it