Ho conosciuto Franco Pinto soltanto dopo aver letto alcuni suoi testi poetici e, soprattutto, dopo la presentazione da me stesa di Mêje cûme e mo’, nella quale rilevavo che la sua poesia era solo in apparenza spontaneamente immediata. Certo, la base era una nativa propensione all’effetto musicale della parola dialettale che, al di là della trascrizione spesso implausibile in molti casi e in molte aree sociolinguistiche, acquistava senso appunto dal suono. Suono del senso e, insieme, senso del suono. Di rilievo, poi, gli addensamenti tematici del poeta che si esprime con metafore prevalentemente marittime, attraverso le quali ‘chiama’ la poesia. Ma non va trascurato, nel versificatore (apparentemente) ingenuo, il riuso spesso sapiente della metrica tradizionale, in particolare epica e narrativa.
Ma ho conosciuto davvero Franco Pinto in una bella serata a Manfredonia, alcuni anni fa, e l’ho rivisto in seguito in luoghi e tempi diversi. Di lui mi colpì la tenera dolcezza di signore gentile. E le mani: ruvide, sì, ma non dure e solcate come quelle del contadino, bensì forti e, insieme, duttili. Seppi soltanto successivamente che era un operatore, inevitabilmente creativo, del legno. Falegname e poeta e, pur sempre, pescatore e marinaio.
Una figura classica del nostro occidente mediterraneo: l’Artefice ovvero il faber ovvero il poietés . Il Poeta.
Rino Caputo
Storico e Critico della Letteratura
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