Quanto è difficile dire addio a un amico? Tanto. Troppo.
Ho lavorato con Franco Pinto per più di vent’anni, ero il suo “cassetto”. La persona a cui aveva affidato la sua poesia. La persona a cui aveva detto: “Te dèche carta bianghe quèdde ca u mètte mitte, mò m’avvelône u sanghe vù ca je môre e citte ?”.
E insieme siamo partiti, abbiamo pubblicato i primi libri, andavamo a Ischitella, dove si radunavano tutti i poeti dialettali d’Italia e dove Franco era accolto come un divo. Tutti facevano a gara per conoscerlo, per scambiarci una parola, tutti restavano in silenzio quando leggeva le sue poesie in quel dialetto serrato, difficile persino per noi di Manfredonia, ma che per tutti era musica. Sì perché Franco era il poeta di Manfredonia, ma di Manfredonia aveva solo il dialetto. Qualcuno ha detto su Facebook che portava avanti le nostre tradizioni, ma non è proprio così, può essere vero per il dialetto, ma non per la poesia. La poesia di Franco era apprezzata dai milanesi come dai siciliani proprio perché non era affatto condizionata dalla città, dalle tradizioni, dal campanilismo.
La poesia di Franco aveva, ha e avrà sempre qualcosa da dire a tutti, e tutti si ritrovano nelle sue parole, parole senza tempo, senza confini, pura lirica. Poi è nato ManfredoniaNews e Franco con entusiasmo ha aderito sin dal primo giorno a questo progetto quasi visionario di mio fratello Raffaele. Si è cimentato a scrivere su tutto, anche di tradizioni. Scrivere delle tradizioni, però, gli serviva non per ricordare quello che si faceva e come si faceva. Quello che Franco voleva salvare, che voleva tramandare, erano le parole. Quelle parole che non si usano più quando si parla in dialetto, quelle parole così vecchie, diceva Franco, che nemmeno i vecchi se le ricordano più. Dopo otto anni di editoriali di Franco Pinto, tanti manfredoniani, e qualcuno me l’ha confessato proprio nei giorni scorsi, aspettano ancora il nuovo numero per vedere cosa dice Franco.
Negli ultimi mesi abbiamo pubblicato poesie apparse sulle tre raccolte poetiche già pubblicate, Franco ormai faticava a scrivere. E dopo l’intervento di qualche mese fa mi disse: “Non ridere di me. Mi ha lasciato. Quella voce, quell’anima o quel non so che, che mi diceva cosa scrivere, se n’è andata. Come una farfalla è volata via. E io sono rimasto solo. Che faccio senza di lei?”. Sembrava proprio un innamorato abbandonato.
E così ci sentiamo noi adesso, abbandonati. Ma la poesia di Franco non morirà mai. In qualche modo, i progetti che avevamo in sospeso faranno il loro corso e Franco vivrà ancora. Le sue poesie continueranno a parlarci, i suoi racconti a divertirci, le sue parole a stupirci, perché Franco ormai è un altro dei monumenti di Manfredonia.
A noi non resta che salutarlo come lui salutò il nostro amico poeta Achille Serrao: “Ce vedime, Sumà”.
Mariantonietta Di Sabato