Dopo gli omicidi di S. Marco e di Vieste, si percepisce un senso di sgomento e di preoccupazione in tutto il Gargano. Si è aperta una fase di riflessione e di analisi che a vario livello ci deve indurre nei prossimi mesi a non abbassare la guardia. Si ha paura. Eppure anche la mafia può essere indotta ad aver paura. La mafia non gioca a fare paura ma si nutre delle nostre paure, della nostra incapacità a fare fronte comune, del nostro poco amore per ciò che è spazio pubblico. Si nutre del nostro individualismo, dei nostri conflitti sociali, perché sa che se tocca qualcuno, gli altri non muoveranno un dito, anzi si volteranno dall’altra parte. La mafia isola per colpire meglio, ci divide per governarci indisturbata. Non vuole un consenso esplicito, ma un tacito permesso a fare i propri affari. La mafia ama il silenzio dei sotterfugi. La coesione dei clan. Non chiede il parere a nessuno dei suoi membri, ma impone una ferrea obbedienza e una cieca fedeltà. Promette di proteggerti ma a prezzo della tua libertà e della tua dignità. Della tua stessa vita. La mafia ti prende tutto: i tuoi affetti, la famiglia, i figli. E guai a chi si ribella. La mafia trova il suo terreno fertile in un tessuto sociale sfilacciato, dove ognuno gode se l’altro cade in disgrazia. Più basso è il senso di comunità e di appartenenza ad un territorio e alla propria città, più alta è la probabilità che la mafia attecchisca. Essa si nutre della solitudine di chi è lasciato solo a combatterla, del timore che abbiamo di perdere qualcosa di nostro quando ci viene chiesto di difendere un bene che è patrimonio di tutti. La mafia è anche il frutto di una delega facile, di una politica fatta di voti di scambio. La mafia trasforma il diritto al lavoro in una concessione o in un favore fatto in cambio della nostra omertà. La mafia è il frutto di una democrazia che arranca, che stanca non sa generare una socialità aperta e partecipata, una cittadinanza attiva e responsabile. Si sostituisce ad un Stato che non rappresenta più nessuno, ma che viene identificato con una casta che lontana dalla gente usa il potere secondo la logica dei privilegi. La mafia non si sostituisce allo Stato, semplicemente lo invade e lo conquista, lo ammalia e lo contamina. Come un cavallo di Troia vi penetra secondo logiche clientelari. Fino a proporsi come contropotere che si erge a difesa di quanti non si sentono più da esso rappresentati. La mafia si introduce negli spazi di delegittimazione e dove maggiore è la crisi di rappresentatività. E così mentre i partiti litigano e i politici si spartiscono le poltrone la mafia cresce indisturbata nella logica di un’alleanza implicita. Ed è qui che corruzione e mafia si propongono come due facce della stessa medaglia. Alla mafia non interessa lo Stato ma il territorio, le sue risorse, il suo futuro, le sue ricchezze, le sue potenzialità, le nuove generazioni. Mentre ai politici lascia lo Stato e le Istituzioni – il potere formale – la mafia punta al controllo del territorio e delle città – il potere reale. La mafia si nutre della nostra indifferenza mascherata da falso buon senso e da pacifica convivenza. Gode delle nostre piccole illegalità Si abbuffa della nostra negligenza e della nostra apatia. Alla mafia piace quando ci commuoviamo, ma teme se ci muoviamo. Alla mafia piace se dormiamo e ci divertiamo (per questo ci offre anche locali e spazi adatti per farlo, gestisce lo spaccio, la prostituzione), si preoccupa invece se ci svegliamo. Ci addomestica con il piacere facile e ci fa dimenticare il senso del dovere. Eppure c’è un punto debole della mafia: la sua stupidità intesa come stoltezza. Si, perché il mafioso fondamentalmente è un uomo che confonde l’onore con il potere di disporre delle vite altrui. Il mafioso si sente più grande di quanto in realtà è. Confonde la forza con la virilità, il rispetto con un senso di debolezza. E’ un difetto di valutazione del proprio io. I mafiosi in fondo sono molto infantili: non hanno avuto il coraggio di opporsi ai loro padri e familiari che li hanno incamminati su tale strada. Non hanno una coscienza morale né sensi di colpa, perché sono cresciuti con l’idea che non devono rendere conto a nessuno. Si pongono al di là del bene e del male. Non sanno convivere con la propria fragilità. La fuggono e la nascondono a sé e agli altri, mostrando una forza che li autorizza a oltrepassare ogni limite: legale e morale. E proprio questa è la loro stupidità. La mafia non teme tanto gli uomini coraggiosi o gli eroi, ma teme gli uomini liberi che sanno tenere sveglia la loro coscienza, che lavorano nel sociale facendo prevenzione, togliendo da sotto ì loro piedi quel terreno di omertà e di disimpegno ad essi favorevoli. La mafia apprezza l’ignoranza quale bacino della paura e teme la cultura intesa come uso critico della ragione. La mafia teme la nostra onestà quotidiana, ha paura della nostra indignazione, del nostro risveglio sociale, del nostro senso di comunità. La mafia finirà se ogni cittadino, oltre che percepirsi come un individuo isolato, si sentirà a pieno titolo membro attivo della propria comunità che ama e difende.
Per questo: giù le mani dalla comunità!
Michele Illecito