Mercoledì 13 Novembre 2024

Monsignor Capovilla: un prete del Nord, vicino alla comunità sipontina

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Ho scritto questa riflessione l’anno scorso, d’impulso, perché colpito profondamente dalla notizia della morte di Mons. Capovilla. Forse, anche, per calmare e frenare quel fremito di incredulità e dolore da cui mi sentivo invadere. Mi sentivo frastornato; mi si sono accavallati pensieri, sentimenti, ricordi emotivamente forti e mi sono concentrato su me stesso ed alcune domande. Perché? Quale ruolo ha avuto quest’uomo nella mia vita, per la comunità sipontina, per la Chiesa e la società italiana? Per una sorta di pudore allora non l’ho pubblicato sia perché facevo riferimento ad esperienze e fatti personali, sia perché tanti altri ne avevano parlato e ne stavano parlando con molta più competenza e profondità. Oggi, a distanza di un anno, più sereno, ne parlo pubblicamente per motivazioni personali e perché penso che sia stato un uomo che ha influenzato la Chiesa e la società italiana, il Sud, la nostra comunità sipontina. In generale attraverso l’attuazione del Concilio Vaticano II, accolto con passione e partecipazione convinta dalla diocesi sipontina, prima con Mons. Cesarano e poi, ancor più, tramite Mons. Vailati che ha incarnato e tradotto operativamente nella specifica realtà locale per tutta la sua vita. In particolare e direttamente per i rapporti formali ed informali che ha avuto con vescovi e sacerdoti e con semplici cittadini, e per un particolare e sentito legame di amore e di affetto con Manfredonia, alla luce della profonda devozione che aveva per la Madonna di Siponto.

IL LEGAME CON MONS. CESARANO E MANFREDONIA

Quest’ultimo legame si instaurò profondamente fin dal 1955 quando, venne a Manfredonia al seguito dell’allora patriarca di Venezia Mons. Angelo Giuseppe Roncalli, di cui era segretario, per l’incoronazione della Madonna di Siponto. Tale legame fu così profondo e duraturo che 50 anni dopo, il 28 agosto 2005, quando Mons. D’Ambrosio lo invitò per il cinquantennio, non potendo venire a Manfredonia per ragioni di salute, inviò una lettera in cui, salutando con simpatia ed affetto la chiesa e le famiglie del Gargano che custodiscono la Vergine di Siponto, affermava: “Il grazioso pieghevole che ne annuncia la celebrazione ridesta soavi ricordi e rianima edificanti visioni di popolo orante e plaudente. Onora il Beato Papa Giovanni, il solerte pastore Andrea. Affratella una volta ancora le chiese particolari di Manfredonia e Venezia, Amalfi e Bergamo, Roma e Istanbul. In tutto ed in tutti si riflette il sorriso materno di Maria”.

In quest’anno, approfondendo questa dimensione, ho scoperto anche un carteggio personale con Mons. Cesarano, sia nel periodo in cui Mons. Capovilla era in Vaticano, segretario di Papa Giovanni XXIII, sia successivamente alla morte del Papa stesso, carteggio che qui semplicemente accenno, rinviandone un approfondimento in altra sede e momento. Questa corrispondenza a me pare molto significativa, non tanto per questioni dottrinali o chiesastiche pur presenti, ma soprattutto perché consente di conoscere profondamente due uomini, che in amicizia si consigliano e si sostengono reciprocamente, esprimono le loro debolezze, difficoltà, sentimenti, sogni, desideri, dolori, come qualsiasi altro uomo o donna. Questo carteggio, del tutto informale, aiuta anche a cogliere con una luce nuova e più completa la vita dei nostri vescovi, che siamo spesso abituati a vedere solo nel loro ruolo e funzione, come se il loro fosse un mestiere, una professione, un servizio agli altri, quando invece è molto di più. Una vocazione, una grazia: l’incontro misterioso con Cristo di cui poi si diventa, con tutta la normale, personale problematica umanità, discepolo e ministro, voce ispirata e guidata, un pastore che guida il gregge che non gli appartiene perché il popolo è di Dio.

LA MADONNA DI SIPONTO NEL CUORE DI PAPA GIOVANNI XXIII

Traspare dalla corrispondenza anche il legame profondo di Mons. Capovilla con la Diocesi e la città di Manfredonia. In una lettera del 27 febbraio 1960 di Mons. Cesarano a Capovilla così è scritto “ci è prevenuto il prezioso cero che il nostro Santissimo Santo Padre si è degnato di destinare … al nostro Santuario di Santa Maria Maggiore di Siponto … vogliamo organizzare una solenne cerimonia in Cattedrale per l’offerta del cero del Papa alla nostra Madonna di Siponto, durante il quale rileggerò la splendida Omelia che lo stesso Santo Padre recitò con tanto entusiasmo  e commozione nell’atto medesimo dell’Incoronazione, e far rivivere in noi tutti quegli indicibili momenti di gioia celeste. … nella prossima ricorrenza della festività dell’Annunciazione di Maria Santissima …”.In una lettera del 11.II.61 Mons. Capovilla così scrive, dopo essersi confidato su alcuni aspetti personali della propria vita “Naturalmente ho letto le pagine di V.E. a sua Santità: che ha sorriso … e mi ha detto: benedico il mio Cesarano e la sua e la mia Manfredonia a due mani!”.Il 12.VII.1963 (il 3 giugno 1963 era morto Papa Giovanni) così Capovilla scrive a Cesarano “come faccio a scrivere? Sono come un ragazzino che non può compitare se vien meno la presenza della mamma.  Ah! Papa Giovanni nella luce del Signore, egli vede tutti e sa che l’ho amato, che l’ho servito fedelmente che adesso vivo di Lui, e sempre per Lui! … Il mondo si è accorto, cara Eccellenza, che egli è stato grande in tutto: nella bontà come nella saggezza, nel governo pastorale come nell’ascendere in Cristo! … mi voglia bene e sempre mi benedica.”.

INTRECCIARE NUOVE AMICIZIE È UN FIORE DEL VANGELO

Anche il carteggio con semplici cittadini di Manfredonia è molto significativo. Ad esempio leggendo la corrispondenza intercorsa dal 1967 al 1979 con il dott. Tavano Domenico emerge il suo desiderio e volontà di mantenere e curare rapporti di amicizia personale con cittadini di Manfredonia, nel tempo e con continuità. Nelle sue cartoline e lettere, spesso di semplici auguri, si incoraggia soprattutto a praticare il Vangelo, alla luce degli insegnamenti di Papa Giovanni XXIII, riportandone frasi e pensieri di Papa Giovanni. Poche ma efficaci le sue personali parole, quali “dilatare gli spazi della carità è proprio del cristiano” oppure “lavorare con altri fratelli, al loro servizio e per la tutela dei loro diritti è un grande impegno”, “intrecciare nuove amicizie è un fiore del Vangelo”; parole che testimoniano il suo senso di umanità, il dare sempre speranza, poiché tutte le difficoltà sono superabili, alla luce del Vangelo.

TRA IL PERSONALE ED IL COMUNITARIO

Ho sempre pensato che tra la propria ed altrui vita ci fosse un legame, un intreccio inestricabile, ed anche misterioso. Non solo con le persone più care, i famigliari, ma con tutti. Quasi che un filo sottilissimo e spesso invisibile ci legasse a tutte le altre persone del mondo, indipendente dalla vicinanza fisica. Le vicende personali, perciò, sono sempre in qualche modo comunitarie, non prescindono, non possono, dalle relazioni con gli altri. Una volta, nel’68 si sarebbe detto che il personale è collettivo, politico, e viceversa. Ci sono persone che si sono conosciute e che, anche se non c’è stata costante frequentazione, ti restano dentro, quasi a confondersi con quei valori guida che ti sei dato e costruito. Persone per la cui morte provi dolore come per un famigliare, una sofferenza che diventa anche una occasione di ripensarsi.

VECCHIE E NUOVE DOMANDE SUL SENSO E LA PRATICA DEL CRISTIANESIMO

La morte del Mons. Capovilla, avvenuta all’età di oltre cent’anni mi ha profondamente colpito ed addolorato, ma ha anche risvegliato ricordi personali, piccoli e brevi ma intensamente significativi. L’ho conosciuto, o meglio fu lui a volermi conoscere, nell’agosto del 1967. Era venuto a Manfredonia in occasione dell’inaugurazione della piazza e del monumento a Papa Giovanni XXIII; mi fece cercare perché voleva conoscermi, in quanto io, studente universitario della facoltà di Sociologia di Trento ero amico di Marco Boato di Venezia, pupillo di Mons. Capovilla. Ricucci, assessore democristiano, amico di mia madre, venne a cercarmi a casa, al Palazzo Rosso. Tale richiesta mi parve strana e fu considerata strana dall’ambiente locale, poiché io ero un giovane con idee di sinistra, impegnato nel movimento studentesco di contestazione al sistema, non certo di orientamento democristiano. Anzi. Cattolico poco praticante per tradizione di famiglia, che votava comunista perché  lavoratori e per l’influenza particolare di uno zio. Ero però attratto personalmente dai valori evangelici, da chi, come i preti giovani, sacrificando se stessi e la propria individualità si dedicavano con fede agli altri, ai poveri; in tal senso ho avuto amici che hanno studiato in seminario, alcuni sono diventati preti e alcuni no. A partire dall’adolescenza, con radicalità, ero diventato fortemente critico nei confronti di sacerdoti, per lo più adulti, che mi sembrava non praticassero ciò che predicavano. Non capivo né accettavo il senso della frase che mi veniva ripetuto “non guardare all’incoerenza, ai nostri peccati, che sono  propri degli uomini (ed i preti sono uomini), ma alla fede della Chiesa”. La Chiesa mi sembrava pura gerarchia che governava sul popolo di Dio con regole, precetti, divieti. Dov’era il messaggio evangelico di fratellanza della Chiesa come comunità partecipante, solidale e vicina ai più deboli? Dov’era la luce di speranza, quel messaggio di salvezza che la vita di Cristo suscitava e testimoniava in ogni parabola e fatto presente nel Vangelo? Dov’era il Nuovo Testamento, così diverso e quasi in opposizione al Vecchio Testamento, che vedevo dominante nella Chiesa locale?

TRENTO, IL ’68 E L’INCONTRO CON CAPOVILLA

Ero inscritto a Trento nel 1964 al Gruppo Universitario d’Intesa, costituito per lo più o quasi totalmente da cattolici, democristiani e non; contemporaneamente guardavo all’UGI, Associazione che raccoglieva i giovani universitari di orientamento socialista e comunista. In tal senso ero, quindi, un giovane diviso e frantumato, alla ricerca continua di un senso; ero un borderline. Nel gruppo d’Intesa mi riconoscevo soprattutto per le relazioni di comprensione e di amicizia. C’era attenzione verso l’altro come persona, una disponibilità all’aiuto, a comprendere più che a giudicare; tutto ciò a me giovane per la prima volta così lontano da casa dava calore e forza. Vedevo e c’era in questi giovani un fermento straordinario e continuo per incarnare individualmente e come gruppo quanto nel Concilio Vaticano II si stava esprimendo: un nuovo mondo, la Chiesa come popolo di Dio in cammino. Paolo Sorbi e Marco Boato erano i leaders di questo gruppo universitario ed io ne ero diventato amico, anche perché vivevamo nel collegio universitario, a Villazzano di Trento. In quell’incontro Capovilla mi chiese qualche informazione sull’ambiente generale e religioso di Manfredonia. Non seppi dirgli molto, anche perché vivevo più a Trento che a Manfredonia. Uscii dall’incontro orgoglioso e grato: avevo conosciuto il segretario particolare di Papa Giovanni XXIII, promotore di quel Concilio Vaticano II che tante risposte stava dando alle mie domande esistenziali, pur sempre aperte ed incompiute.

ALTRI INCONTRI, LA SPERANZA E LA VOGLIA DI IMPEGNO

Dopo questo primo breve incontro, nel 1969 andai a trovarlo a Chieti dove viveva, perché nel 67 era stato eletto Arcivescovo di Chieti-Vasto  da Papa Paolo VI, e dove rimase fino al 1971. Forse era settembre; mi accolse di prima mattina con grande gentilezza e sincerità. Mi offrì la colazione, parlammo di me, quale futuro, dell’Abruzzo. Era molto attento a come poteva essere utile al popolo abruzzese con la sua presenza e con la sua azione. Naturalmente mi rivolgevo con reverenza e grande rispetto verso quest’uomo, cosi minuto e piccolo da sembrare fragile, ma in realtà così forte e tenace, sempre dispensatore di parole di fiducia, speranza e ottimismo. Il 26 maggio 2016, ho letto una sua frase che illumina compiutamente quella impressione. A chi lo interpellava parlando del futuro diceva “come posso essere pessimista io, dopo aver incontrato uomini come Papa Giovanni, Paolo VI, gli altri papi, Giorgio La Pira, Giuseppe Lazzati, Giuseppe Dossetti, Alcide De Gasperi, Aldo Moro. La nostra storia è storia di bellezza, di verità, di giustizia, di amore”.Uscii dall’incontro confortato e pieno di coraggio, voglia di fare e di impegnarmi in tutti i sensi. Mi colpì in quel incontro la sua grande cultura ed ancor più la sua sete di conoscenza. Aveva sul tavolo tantissimi quotidiani, riviste e qualche libro, tutti aperti con qualche sottolineatura, ad indicare che erano stati letti, non sfogliati, quasi con avidità. C’era ordine e precisione; si ricavava un impressione di sistematicità di analisi, segno di lucidità e profondità. Mi chiesi: ma come fanno i vescovi a leggere così tanto? Il tempo per le preghiere dove lo prendono?

Ho avuto, poi, un breve incontro occasionale, quando nel 1987 mi ero recato a visitare il Santuario di Loreto: un saluto affettuoso ed uno scambio in amicizia. La terza occasione di contatto diretto fu nel 1990 quando inviai copia del libro-intervista a Mons. Vailati. Mi rispose subito; mi inviò una cartolina di ringraziamento con parole di affetto e di fede e in regalo una copia dei due volumi inediti di Lettere ai Famigliari di Papa Giovanni XXIII.

Da allora l’ho seguito da lontano sempre provando sentimenti di vicinanza e riconoscenza per la testimonianza di fede religiosa e civile che dava. Ora è sepolto a Fontanella, vicino alla tomba di David Maria Turoldo, altro grande della Chiesa.

Prof. Silvio Cavicchia

FINE PRIMA PARTE

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