Pensare di risolvere i mali della nostra democrazia a colpi di leggi elettorali, indicate con una nomenclatura latina al solo fine di nobilitarle, o disegnando plurime geometrie governative è un po’ come sperare di riparare il manto stradale apponendo a più riprese pezze di catrame, buone solo per aumentare, alla prima pioggia, il diametro delle buche che tentano di coprire. Al tempo stesso l’addossare unicamente responsabilità al mondo politico, ergendo la propria immagine di integerrimi cittadini, per quanto sport nazionale dei nostri tempi, non permette di compiere alcuna anatomia della nostra democrazia; col rischio di finire un giorno a non poter far altro che accertarne la morte e leggerne l’autopsia. La nostra Repubblica è nata con una tara congenita. Non avendo esperienze concrete di democrazia, sia nel ventennio dittatoriale che nel precedente periodo giolittiano, alla sua proclamazione i più dovettero affidarsi al tutoraggio dei partiti, composti da uomini che nell’esilio o nella lotta partigiana avevano forgiato la loro cultura politica, nell’esercizio di una nuova pratica di vita sociale. Accettandone vizi e virtù che in quanto uomini possedevano. Tale condizione, favorita dalle grandi narrazioni ideologiche e da un clima internazionale più semplificato dell’attuale, si è protratta placidamente sino agli anni ’70 quando la prima generazione di italiani nata e cresciuta in democrazia ha rivendicato un ruolo sociale più attivo, da leggersi sia in maggiori richieste referendarie che in proposte e giudizi politici autonomi. Non avendo a riguardo ottenuto risposte positive dal mondo politico si è iniziato a percepire questo come dominato da una classe di taglieggiatori, non certo di maieutici della democrazia. Dimenticando, però, come non fossero solo i palazzi del potere a rendere corrotti i politici, casta separata dalla collettività, ma anche i meccanismi di scambio elettorale che li vedevano quanto loro protagonisti; creando una logica dove il singolo, vittima del malgoverno alimentava questo accettando la corruzione. Tuttavia, seppur affetto da una patologia cronica, occorrerà avere ancora fiducia nel rapporto fra cittadini e politici. E questo perché la democrazia si fonda sulla fiducia. Fiducia nel proprio eletto; nel vincitore politico pronto a rispettare il perdente; nel prossimo. Se essa manca, specie in un momento arido di grandi narrazioni esistenziali, di ideologie, il rischio è di assistere ad una lenta agonia della democrazia. Vivere in democrazia determina infatti la nostra coscienza, la nostra presenza avrebbe detto l’antropologo De Martino, quindi il nostro essere nel mondo. Ma se impossibilitati nel praticare i principi democratici che ci vengono inculcati durante i processi di socializzazione e di educazione è logico percepirla o come feticcio da venerare o come gabbia da cui evadere, finendo per cadere nella natura, nell’anarchia. Perché l’uomo non è nato animale sociale, lo è diventato nel tempo. Ironia della sorte con la crisi della democrazia rischiamo di perdere tale socialità proprio nell’epoca dei social.
Domenico Antonio Capone