Poi dalla solitudine si sprigiona una colonnetta, e le fanno seguito a pochi passi, su leoni, le colonne che, fra le scure sopracciglia di archi ciechi, reggono in una facciata deserta il ricco portale di Santa Maria Maggiore di Siponto.
Questa è dunque quell’arte solenne che dicono pisana, che un giorno a Lucca: dolcemente mi svelò la Patria, che mette nel silenzio d’una pagina d’orazioni il rilievo prezioso dell’iniziale miniata.
Non me ne intendo, ma non stupirei se questa cattedrale in mezzo al prato fosse davvero il primo esempio del costruire monastico e guerriero nel quale il Medioevo si provò a fondere le esperienze del suo rincorrere la visione del mondo, dall’innocente epica dei Mari del Nord alle erudite voluttà della svelta Persia. La nascita d’una architettura significa il principio d’una chiarezza spirituale e d’una volontà vittoriosa. Perché nell’era cristiana non dovrebbe essere stata per prima questa terra, questo ponte dei Crociati, a immaginare saldamente, nella pietra murata e ornata, un’unità fra Occidente e Oriente? Sono le cose che mi commuovono di più, come di vedere, dopo la spedizione d’Alessandro, il canone di Fidia insinuarsi nella scultura indiana di 23 secoli fa. Perché questa regione pietrosa non dovrebbe essere una madre d’architettura? E’venuta su dal tormento della pietra: dalla pietra, vittoria della forma sopra un immemorabile caos. Prolifica d’ogni sorta di pietre: dura, macerata, terra della sete: ci vorrebbero forse altri eccitamenti per inventare una forma?
Nella sua desolata vecchiaia, Santa Maria Sipontina impartisce difatti oggi ancora la lezione più moderna. Dal faticoso svolgersi di due quadrati, guardate come al terzo la sua pianta ottiene che, sovrapponendosi di volo, 4 pilastri e 4 ogive e… 4 muri, e… (avete indovinato!) «quattro» colonne compongano alla cupola la salita potente d’un doppio spazio di cubi. Più cubisti di così… Non c’è da ridere: semplicità e ordine apriranno sempre le vie del sogno.
Siamo usciti.
I passi del sagrestano sono silenziosi come se andasse a piedi nudi. Per uno strano mimetismo anche i nostri passi si sono fatti impercettibili. Siamo scomparsi. Al poco chiaro che può mandare un sanguigno di colonne, ci siamo ritrovati, sorpresi.
Scorgiamo all’altare in fondo, in un cavo d’abside, gli occhi sbarrati d’una statua di legno dipinto. Sono gli enormi occhi bizantini, dimentichi del tempo. Solo Picasso potrebbe dirci perché i Bizantini sono così vicini ai selvaggi. Ripensavo – cogli occhi fissi a quello sguardo insensato, laggiù… – allo Scima che per occhi mette all’idolo pezzetti di specchio. Sarà mai rappresentata meglio l’insensibilità d’una vista eterna davanti al passare?
Sparse come guardie, le gentili colonne – e sono… (bravi!) 4×4 – per il loro regolare i giuochi ora evidenti della volta, via via che avanziamo sembrano dividere il buio addirittura a tende, a scostarle.
Vediamo anche quattro colonnoni; ma ci devono stare per prolungare e fortificare da questa cripta, i pilastri della chiesa di sopra; cercano di non disturbare e ritraggono più che possono nell’ombra la loro corpulenza.
In tali penombre, presso la statua di legno arrampicandosi negli angoli, appariscono apparecchi ortopedici, grucce a mucchi, e vestitucci di tulle polverosi, inverosimili sulla durezza e la freddezza della pietra.
A questo punto scopriamo appesi al muro – è uno scoppio – tutto un fiorire di quadri su rame. Di solito il popolo racconta bene, è la sua facoltà e ne è prova questo genere di quadretti di voto. Ma questa volta le immagini hanno una vivacità straordinaria: sia che si faccia vedere uno che con una tavola sotto il braccio si getti dal piroscafo squarciato da un siluro, e riesca a raggiungere riva coll’aiuto di quella tavola; o si discorra d’un bambino che, caduto sotto cavalli impennati, attaccati ad un carro pesantissimo, passato il carro, mentre gli astanti urlano ancora disperati, si alzi e sorrida; ovvero s’indichi un albero schiantato dal fulmine mentre lo potano, e il potatore resti a cavallo d’un ramo della mezza pianta rimasta ritta, e guardi in giro come per dare i numeri al lotto; ecc. ecc. Il dramma è nel mare e nella nave, è nei cavalli impennati e negli astanti, è nell’albero e nel fulmine; non è mai in chi si salva. Ci sia o meno la volontà, c’è sempre il miracolo, c’è sempre la fede che rasserena.
Stanno nella polvere e nel grigio, lì abbandonati i ricordi della sofferenza. L’uomo, si diceva incominciando, è debole e lo sa, e perché lo sa, per miracolo divino o per volontà, che è miracolo umano – e di solito le due forze si alleano – la sua condizione, e la sua dignità, è di superarsi. Per questo quando s’è salvato – come ha visto l’artista – è al di là di sé, al di là del dramma, egli è valore spirituale, e il dramma langue e perisce nella natura delle cose. Allora il sotterraneo mi s’è riempito di pellegrini.
Non c’era nessuno.
C’erano impronte di piedi, impronte di mani, graffi sulla pietra, e un nome dentro ciascuna mano o ciascun piede. Pellegrini che erano arrivati qui cantando, anzi gridando: a piedi scalzi con il loro passo rapido, anzi impetuoso com’è la fede. E finalmente il loro piede aveva calcato il suolo sacro, la loro mano aveva toccato la pietra benedetta. Ne resti memoria per sempre!
Sentirò per tutto questo mio correre dietro l’acqua, in su e in giù, dal Gargano a Caposele, il passo del pellegrino. E se non ne sentirò il passo, ne vedrò la traccia.
(Tratto da Giuseppe Ungaretti, Deserto e dopo, Mondadori, Milano, 1961)