Prima Parte
I sofferenti mentali sono a Manfredonia (in Capitanata ed in Italia) in aumento, riguardano sempre più tutte le fasce di età, sono, sociologicamente espressione per lo più,, dei ceti più deboli e svantaggiati della società, soprattutto giovani donne. Rappresentano, quindi, una situazione personale e sociale drammaticamente rilevante, che si ripercuote negativamente sulle condizioni di vita di centinaia di famiglie del nostro territorio, poiché a tutt’oggi è essenzialmente su di loro che si scarica il “peso” della gestione e della relazione di vita del disagiato mentale, la cui presenza in famiglia (come qualsiasi disabile) influenza fortemente la qualità di vita di tutti i componenti la famiglia stessa, tanto da renderla molto fragile, depotenziata nelle sue energie, specie se resta sola e chiusa in se stessa.
E’ tutt’ora dominante la mentalità di paura e di rifiuto verso i sofferenti mentali
Nonostante siano passati quasi 40 anni, la 180, la cosiddetta Legge Basaglia, è rimasta sostanzialmente inattuata, se non nella parte dell’abolizione formale dei manicomi, che, tra l’altro, persistono ancora sia pure nelle pochissime strutture di “manicomi criminali” e corrono il rischio di riprodursi e riformarsi in forme nuove. Infatti proprio quelle iniziative e servizi sul territorio e nella comunità che potevano e dovevano essere di sostegno alle famiglie e al disagiato mentale nel suo contesto domiciliare, ordinario e quotidiano di vita, non sono state sostanzialmente realizzate e, comunque, sono rimaste isolate, emarginate. Limitate nei mezzi e risorse sono diventate spesso solo episodi, esempi buoni di apertura e di accoglienza, piccola luce, ma in contesto sempre buio e scuro, immodificato e chiuso, in un mare in cui è dominante ghettizzazione, ospedalizzazione, residenzialità lunga, e/o reiterata spesso continuamente in strutture. Perciò il primo e principale avversario, il pregiudizio e lo stigma è rimasto sostanzialmente immutato, forte e bloccante, “vincente”. Non si è attivato un cambiamento strutturale negli atteggiamenti e nella concezione prevalente, tale da produrre accoglienza ed inclusione sociale di queste persone: è rimasta dominante la mentalità di paura e di rifiuto verso i sofferenti mentali.
Questo è un nodo che va riproposto nella riflessione pubblica, cittadina e non, a livello dei decisori politici, degli operatori professionali della salute, nell’opinione popolare, tanto più che come indicato nell’apposito Libro Verde pubblicato dalla CEE , “la salute mentale è e deve essere al primo posto”, l’obiettivo primario di ogni iniziativa, poiché è contemporaneamente effetto e causa di ogni progresso. La Psichiatria medicalizzante, residenziale, ospedalizzata è tutt’ora molto forte, sia nell’ambito dell’attività professionale, sia nella richiesta “passiva” della popolazione, sia, soprattutto, nelle risorse impiegate ed utilizzate. Non si tratta di contrapporre tale orientamento scientifico-professionale ad un altro approccio, la psichiatria territoriale e comunitaria, anche se storicamente c’è stato e c’è un conflitto oggettivo tra questi indirizzi ed esponenti, conflitto che è anche riflesso della lotta sociale e di potere. Dietro il prevalere di uno o dell’altro c’è un determinato utilizzo di risorse pubbliche e private, c’è, per lo più sotterraneo ed inconsapevole, l’insieme di quei meccanismi e trattamenti, anche assistenziali e sanitari, tesi a mantenere o modificare lo status quo, a confermare o meno disuguaglianze sociali.
La psichiatria è sociale: occorre lottare contro le nuove forme di manicomialità
Mai come oggi la psichiatria è sociale come affermava nel ’68 Beppino Disertori, uno dei fondatori. Tale disciplina tecnico/scientifica che si occupa di diagnosi e cura della sofferenza mentale di una persona, non può prescindere dal contesto sociale, dalla comunità, dall’ambiente stretto di vita della persona, non può più operare chiusa nelle quattro mura, ieri nei luoghi aberranti dei manicomi ed oggi in quelli più dolcificati ed annacquati della sola ospedalizzazione e residenzialità lunga, riproducibile continuamente. Oggi, vinta la battaglia formale della chiusura dei manicomi, istituzioni negate, dove tutto era non semplicemente negativo, ma negato, letteralmente negato, proprio nel senso di indicare il totale annullamento di sé come persona, occorre lottare contro le possibili nuove forme di manicomialità. Lottare prima di tutto contro i manicomi culturali e sociali, per abbattere quei muri invisibili ma tutt’ora molto forti, freddi ed invalicabili che sono dentro di noi, dentro la comunità, i muri dell’esclusione, indifferenza, separatezza, allontanamento, chiusura, sfottò e denigrazione, verso i disagiati mentali (pazzi?) perché sono ancora fortemente presenti pregiudizi, atteggiamenti personali e collettivi di paura e di rifiuto nei confronti delle persone affette da disturbi mentali.
Eppure niente è così comune della diversità, forse niente è più normale della sofferenza mentale (per un amore perduto, o non corrisposto, per un trauma, un lutto ed una perdita, ecc…) tanto più se e quando, per varie ragioni, la propria sensibilità si acuisce, la propria passione del vivere è così intensa e forte che si va “fuori di testa” sommersi da questo dolore e si resta allora sospesi a mezz’aria pronti a scattare al primo semplice brutto pensiero, come quando ad una chitarra sempre pronta a vibrare, si spezza la sottile corda e la nota esce fuori stonata e stridente.
Nella seconda parte analizzeremo il perché per affrontare tale questione che ci riguarda tutti, è necessario avere una visione olistica ed un approccio multifunzionale.
Silvio Cavicchia
Sociologo e Ricercatore sociale del Centro Studi e Ricerche “Eutopia”