Il termine smart è usato di frequente nel linguaggio comune: smartphone, smartpad, smartcard e di recente “smart working”. Sarà una trovata pubblicitaria in tempo di crisi? Tre deputate: Alessia Mosca (Pd), Barbara Saltamartini (Nuovo centrodestra) e Irene Tinagli (Scelta Civica) hanno presentato il 29 gennaio una proposta di legge che regolamenta lo Smart Working ovvero“Norme finalizzate alla promozione di forme flessibili e semplificate di telelavoro” nei CCNL (contratti collettivi di lavoro di qualsiasi livello), con specifico accordo economico, con strumenti informatici e obblighi di sicurezza su misura. Nonostante il job act sia stato già approvato, tale proposta potrebbe rientrare all’interno dei decreti attuativi che specificano le modalità di esecuzione delle norme entrate in vigore dal 1° Marzo che regolamentano il mercato del lavoro.
Il legislatore, già da oltre un decennio, aveva attuato una specifica normativa nazionale sul Telelavoro che doveva essere recepita nella contrattazione decentrata ed integrativa. Il privato sta ancora riflettendo sul da farsi! Solo nel pubblico impiego è stata implementata la forma di “telelavoro domiciliare e satellitare” con la definizione di specifici progetti realizzati a livello regionale e provinciale. Purtroppo non tutte le regioni sono virtuose per cui il telelavoro rimane ancora un’utopia. Recenti studi dell’Osservatorio del Politecnico di Milano hanno stimato i benefici dello Smart Working in termini di produttività e risparmio: solo in Italia comporterebbe 27 mld di ricavi in più e 10 mld di costi in meno. Le normative ci sono invece le imprese stentano a farle decollare, sarà un problema di forma mentis degli imprenditori italiani?
Anche nel nostro territorio, le “aziende del contratto d’area” avrebbero potuto cimentarsi in queste nuove forme di lavoro per fronteggiare le problematiche connesse alla crisi, contenendo i costi produttivi e garantendo tutti i diritti di cittadinanza dei lavoratori. Invece hanno pensato bene di intascarsi i contributi e altre tipologie di sovvenzionamenti pubblici piuttosto che reinvestirli in “ricerca e sviluppo” per convertire la produzione in tempo di crisi e poter essere concorrenziali nel mercato globalizzato. Di fronte alle prime difficoltà gli imprenditori “furbetti” hanno preferito scappare via dalla nostra terra lasciando le numerose cattedrali nel deserto.
Un cambiamento è possibile. Occorrerebbe avere un po’ più di determinazione e coraggio nell’applicare le normative già in vigore da tempo che potrebbero sembrare pionieristiche (adottate negli USA già negli anni ’80 – ’90) ma che potrebbero modificare la rotta verso una reale ripresa economica.
Grazia Amoruso
L’attuale crisi non è contingente, né riguarda qualche aspetto, ma è strutturale per cui è fondamentale chiederci: per quale progetto siamo disposti a dedicarci ed a impegnarci? E per realizzare questo progetto quale cultura, quale etica, quale economia, quale politica sono indispensabili? E’ da ripensare profondamente la concezione stessa di sviluppo : identificato come crescita materiale e quantitativa, misurata dal PIL. E’ urgente abbandonare questo progetto quantitativo per assumere quello qualitativo del vivere bene in equilibrio con se stessi, con relazioni positive fra persone, comunità e popoli. Il cambiamento è possibile. Oltre ad avere più determinazione e coraggio nell’applicare le normative già in vigore da tempo, a Manfredonia, occorre anche sostituire i politici che con il proprio “menefreghismo” hanno provocato la scomparsa delle aziende del contratto d’area.