Domenica 22 Dicembre 2024

LE RAGIONI DI UNA “FUGA” ovvero Storia della AJINOMOTO-INSUD a Manfredonia dagli inizi alla fine

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di Michele Brunetti
tratto dal sito: http://digilander.libero.it/luirig/ajinomoto-manfredonia/index.htm

Le ragioni di un racconto
Molte volte, in questi anni, avevo notizia di incontri e di dibattiti pubblici in cui, tra l’altro, si parlava delle vicende del primo insediamento industriale a Manfredonia, la Ajinomoto-INSUD, e tutte le volte mi preoccupavo di chiedere all’amico Mimì Tavano, l’unico col quale ho condiviso tutte le mie informazioni al riguardo, se avessero chiesto notizie a lui, visto che non lo avevano fatto a me e, alla sua risposta negativa, concludevamo, insieme: – «Si diranno le solite inesattezze!» –
Con Tavano, infatti, abbiamo condiviso molti degli avvenimenti narrati, scambiandoci sempre pareri, consigli e informazioni, e rileggendo queste note e ricordi, mi sono accorto di aver usato, molto spesso, il plurale “noi” che non vuol assolutamente essere un pluralis majestatis, ma solo l’indicazione di condivisione, con lui ed altri amici e colleghi, di quei fatti e di quelle interpretazioni di fatti cui assistevamo.
Spesso, e ripetutamente, mi hanno chiesto di conoscere i veri motivi della chiusura della fabbrica Ajinomoto di Manfredonia, per semplice curiosità o per avere la conferma della propria convinzione, e allora sentivo:
1. i giapponesi se ne sono andati scandalizzati dalla poca voglia di lavorare delle maestranze;
2. i giapponesi hanno scoperto che gli operai, invece di lavorare, giocavano a carte o vedevano filmini pornografici;
3. i giapponesi hanno scoperto che i dipendenti “rubavano” (che cosa, nessuno lo diceva);
4. tutti insieme questi motivi e altre simili facezie.
Sfatare tutte queste convinzioni era una impresa che avrebbe richiesto lo spreco inutile di molte energie, perciò, se l’uditorio meritava, rispondevo solo:
– «Sono tutte idee sbagliate! Non avete detto una sola ragione valida ed effettiva.» –
A coloro che, invece vogliano veramente sapere quali sono stati i veri motivi della fine di quell’esperienza industriale, chiedo prima di tutto la disponibilità a dedicarmi una parte del loro tempo, poi cerco di raccontare il tutto, non senza ribadire che io posso raccontare solo quelli che conosco, se vi sono altri motivi, di cui non ho contezza, non posso parlarne.
Cap. I – I PRODROMI
Gli Auguri
In piena atmosfera festaiola, prima di lasciare l’ufficio e tornare alle nostre case, andammo a porgere i nostri auguri per il nuovo anno, il 1977, al Presidente della Società, il Professor Mario Signora. Avevamo visto scendere il personale giapponese, per questo pensammo di poterlo trovare solo e restare a parlare un po’ più a lungo e serenamente. Invece lo trovammo in compagnia del nuovo direttore di stabilimento, il Dott. Cappuccio, seduto di fronte a lui, ma il Presidente ci fece segno di entrare lo stesso e si alzò in piedi, venendoci incontro con la mano tesa.
In altri momenti, saremmo stati lusingati di questa sua gentilezza e cortesia, invece, non so perché, ne rimasi quasi scombussolato e confuso. Per fortuna, il mio collega Tavano era più lucido di me e, dopo gli auguri ed i convenevoli, gli chiese se avrebbe voluto, l’indomani mattina, che qualcun altro, oltre all’autista, andasse in macchina con lui.
– «No, no! Non c’è bisogno! Sono solo due ore di macchina! E poi..» – e si voltò verso il dott. Cappuccio che, nel frattempo, si era alzato e stava uscendo: – «Per distrarmi mi rileggerò queste carte che, oddìo, ancora non mi suonano tanto bene….» –
Tavano allungava il suo discorso, dicendo che gli avrebbe fatto immenso piacere accompagnarlo e cogliere l’occasione per porgere gli auguri di buon anno anche al fratello del Presidente, l’Arcivescovo di Pompei, luogo di destinazione appunto del viaggio dell’indomani mattina. Intanto il nuovo direttore di fabbrica, Cappuccio, salutava uscendo, lasciandoci soli col Presidente che, nel frattempo, gli rivolgeva frasi di circostanza, farfugliando però anche qualcosa di incomprensibile in milanese e terminando, così mi parve, con una espressione d’accento napoletano.
Sarà stato per la mia antipatia verso il Dott. Cappuccio, ma mi convinsi che quelle imprecazioni del Presidente erano verso di lui, così come, alzandosi e venendoci incontro, avesse voluto licenziare il suo dirimpettaio che, infatti, era uscito:
– «Qui è tutto tranquillo, vero?» – chiese il Presidente.
Pensai che la domanda fosse rivolta al Capo dell’Ufficio del Personale, il Dott. Tavano appunto, che si affrettò a rispondere affermativamente e in maniera rassicurante. Poiché tuttavia, formulando la domanda, il Presidente guardò alternativamente anche me, chiesi timidamente: – «In che senso, mi scusi?» – rammentandomi che la stessa domanda mi aveva rivolto, un paio di settimane prima, il Dott. Cipriani, già Amministratore della Società fino a pochi mesi prima, mentre io gli formulavo gli auguri per l’imminente Natale.
E il Presidente: – «Insomma, i nostri amici sindacalisti, sempre pronti a saltare su ad ogni stormir di foglia, in una situazione simile, se ne stanno calmi e tranquilli? Forse non avete..…, non hanno capito quel che sta succedendo!» – E ci congedò, affermando che n’avremmo discusso la prossima volta.
Tornando a casa in macchina, insieme, io e Tavano, ci chiedevamo il significato di quanto avevamo udito e che cosa volesse dirci con quelle parole, cosa intendesse con “quel che sta succedendo”, concludendo che, qualunque cosa fosse, non si trattasse in ogni caso di argomenti rassicuranti per il nostro futuro.
Nella mia posizione di Responsabile amministrativo, con Tavano Capo del personale, insieme al Chimico, Capo della Produzione, forestiero e in quei giorni assente per ferie, eravamo, anzi lo eravamo stati fino ad un paio di mesi prima, cioè prima del ritorno del nuovo direttore di stabilimento Cappuccio, gli italiani con la carica più alta nell’organigramma aziendale e, noi due, gli unici indigeni locali.

La società.

La Società per Azioni, con sede in Manfredonia, era stata fondata alla fine dell’anno 1963 ed era denominata ancora Ajinomoto-INSUD, anche se, ormai alla fine del 1976, l’INSUD non ne faceva più parte, avendo ceduto la proprietà del suo 50%, in parte alla stessa Ajinomoto giapponese ed in parte alla Deutsche Ajinomoto con sede in Amburgo.
All’epoca della fondazione, negli anni sessanta, v’erano pochi contatti del mondo occidentale con i giapponesi che, si riteneva, fossero solo bravi a “copiare” e “rifare” tutti i prodotti occidentali e, con questi, stessero invadendo il mercato nord americano. In Europa, le cose giapponesi più note erano le piccole radioline a transistors gracidanti che si cominciavano a portare allo stadio, e le motociclette Honda.
L’Ajinomoto giapponese era un grande colosso chimico industriale e finanziario, una vera multinazionale con stabilimenti in tutto l’estremo Oriente che, prima della guerra mondiale, aveva avuto anche uno stabilimento in California (USA), che, però, fu prima requisito dal Governo USA e poi chiuso quando, con personale americano, non furono più in grado di produrre alcunché.
Aveva in ogni modo alle spalle una storia industriale di oltre cento anni e il significato del suo nome, Aji-no-moto, composto appunto da tre lemmi, era “essenza del sapore” oppure, se letto nell’altro verso, all’occidentale, era “sapore d’essenza”.
I laureati in chimica più aggiornati m’informarono che, di 36 aminoacidi conosciuti all’epoca e isolati in laboratorio, su ben 24 il brevetto industriale apparteneva all’Ajinomoto. Sempre gli stessi tecnici, mi spiegarono che gli aminoacidi erano la base di tutti i medicinali moderni, che le industrie farmaceutiche stavano studiando tutte le applicazioni di quelli più conosciuti, e le scoperte erano continue e strabilianti.
Ma per gli aminoacidi si apriva anche un grande mercato per l’alimentazione umana e, soprattutto, per quella dietetica che stava incominciando ad affermarsi, anche se, all’epoca, era per gli “snob” e, per quanto riguardava i dolcificanti, per i diabetici.
Quando i giapponesi decisero di espandersi in Occidente fondarono la Deutsche Ajinomoto ad Amburgo, con lo scopo di studiare il mercato europeo e, contemporaneamente, per offrire i loro prodotti.
Le più grandi industrie chimiche e farmaceutiche tedesche non si fidavano dei giapponesi anche perché questi, quando si presentavano per offrire joint-venture o chiedere partnerships, per istinto di conservazione si presentavano a mani vuote, escluso le normali brochures illustrative e commerciali. La Francia, agli investitori stranieri, consentiva il 49% della proprietà. La Gran Bretagna aveva un colosso chimico che, da parte sua, cercava di penetrare sul mercato giapponese e già si era scontrato evidentemente con i nostri amici giapponesi.

L’unico colosso chimico italiano era l’ANIC ma, all’epoca, mi dispiace dirlo, era appena morto l’Ing. Enrico Mattei e non c’erano dirigenti avveduti ed esperti, e forse, come sempre mi capitava in seguito, veramente pensarono, per assonanza col nome, che l’Ajinomoto producesse motociclette tipo le Honda. E, infatti, spedirono i giapponesi all’IRI che, naturalmente, assicurò che non aveva interesse. Qualcuno del Ministero delle Partecipazione Statali, per fortuna, non volle perdere l’occasione e mandarono i giapponesi al nuovo ente di recente fondazione, l’EFIM.

Presidente dell’EFIM era l’Avv. Pietro Sette, barese e fedelissimo di Moro, che ricevette appunto i giapponesi, affiancato da un altro barese, l’ingegner Musaio-Somma, Presidente della INSUD e d’altre numerose società del Gruppo. Avranno avuto fiuto, saranno stati abbagliati dalla visita in Giappone presso la sede della Ajinomoto, qualcosa insomma li avrà convinti rispetto agli altri “boiardi” delle P.S., perché fu immediatamente convenuto di costruire la nuova fabbrica per la produzione del glutammato monosodico in Puglia e, più precisamente, nel Collegio elettorale di Moro, con la partecipazione paritetica della INSUD.

Veramente si pensava di metterla nell’area industriale barese, dove, secondo i programmi dell’EFIM, si stavano insediando nuove industrie chimiche e, soprattutto, si stava costruendo il Centro Ricerche Breda per la ricerca pura e applicata nell’area chimica e farmaceutica, ma i giapponesi, con la loro simpatica e irremovibile cortesia, scelsero, sempre in ogni modo nel Collegio di Moro, la terra vergine di Manfredonia, naturalmente per una, per loro, valida ragione: volevano tenerla lontana da occhi indiscreti o da curiosi più o meno disinteressati.

Rimase qualcosa, comunque, della terra di Bari, perché tutti i giapponesi conoscevano la parola “sciamanìnn(e)!” che nel dialetto barese significa solo “andiamocene”, ma viene anche usata per intendere “andiamo avanti! Cominciamo!” e, a quanto pare, fu l’ultima parola pronunciata dall’Ing. Musaio-Somma alla fine della trattativa e, come tale, degna di passare alla storia.

Loro l’avevano intesa con questo significato e come un vocabolo della lingua italiana, anche se sbagliavano l’accento e dicevano “sciamàni”, ma se ne servivano, al termine di un incontro, come biglietto da visita con gli italiani per rendersi simpatici, solo che la potevo intendere subito io, pugliese, ma non i nostri chimici settentrionali, che ci scherzavano sopra, avendola ascoltata addirittura in Giappone e capìta solo dopo molte difficoltà grazie alla presenza, tra loro, di uno con genitori e origini baresi.

I Preliminari

I patti para-sociali per la vita della nuova Società prevedevano che la parte tecnica e produttiva fosse esclusivo campo dei giapponesi che ne avevano la conoscenza e, soprattutto, ne detenevano il brevetto industriale che gestivano e proteggevano, coprendolo molto gelosamente.

I nostri laureati in chimica, tutta gente di qualità, molto preparati ed esperti, mi raccontarono che, in Giappone, ebbero modo di costatare che la protezione del segreto industriale e del brevetto assumeva aspetti addirittura maniacali e paranoici, specie se visti con la nostra mentalità occidentale.

Il prodotto scelto per mettere un piede nell’occidente era appunto il glutammato monosodico ottenuto in maniera organica dalla fermentazione della melassa di barbabietola, e tale glutammato era presente, e comunemente usato, sulle mense e nelle cucine orientali da oltre cento anni.

Tutti gli alimenti e le sostanze alimentari in genere contengono l’acido glutammico sotto la forma delle glutammine, che sono quelle sostanze “tipiche” di ciascun alimento che ne determinano il sapore ed il contenuto vitaminico. Il glutammato monosodico è un sale sodico dell’acido glutammico che, aggiunto ai cibi, si scioglie immediatamente, “liberando” l’acido glutammico perché “attratto”, appunto, da quelle glutammine tipiche e proprie dello stesso cibo, con le quali si apparenta aumentandone il sapore ed il valore nutritivo; resta “libero” il sodio ma, siccome in tutti i cibi è presente o ci aggiungiamo il cloruro di sodio, ovvero il sale da cucina, trova con questo il suo “parente” naturale.

Al termine di ogni spiegazione, da qualunque soggetto venisse, naturalmente esperto del settore, tutti concludevano.

– «In ogni caso fa bene al cervello. No! Non è che fa diventare più intelligente o più stupido! E’ che rinforza la corteccia cerebrale. Ciò significa che previene o rende più difficile la degenerazione dei tessuti nella corteccia cerebrale, per qualsiasi causa o accidente!» – Periodicamente, su qualche rivista, apparivano degli articoli che predicavano sulla nocività del glutammato, definito “additivo” alimentare, “scoperto” analizzando gli alimenti nel quale era stato aggiunto.

I chimici mi spiegavano che era pressoché impossibile scoprire il glutammato se aggiunto in un cibo nelle giuste dosi, per la semplice ragione che il composto, non essendo un “additivo” ma semplicemente un “esaltante” del sapore, svaniva presto e, con i cibi caldi, in un attimo, e non lasciava tracce se non in un incremento delle glutammine e, quindi, delle sostanze nutritive proprie del cibo: in pratica, era come dire che “questo cibo è più nutriente e saporito del normale, quindi vi deve essere stato aggiunto il glutammato”.

L’additivo alimentare che veniva invece spesso usato dall’industria alimentare era il “ciclammato di sodio”, una sostanza chimica sintetica, fabbricata in laboratorio quindi, di cui, all’epoca, non era stata ancora valutata la nocività, ma era tutta un’altra cosa, completamente diversa, ed in seguito fu severamente vietato.

Il glutammato si ricava con un procedimento naturale quale la “fermentazione”, lo stesso millenario procedimento con il quale si trasforma l’uva in vino, provocata appunto da batteri noti contenuti nella buccia o nei graspi. Il segreto industriale dei giapponesi era proprio questo “batterio” usato per la fermentazione della melassa e segreta era la sua composizione e la sua natura.

Detto in parole povere, questo batterio, posto nella melassa zuccherosa, con la temperatura giusta e studiata e con l’aggiunta dosata di aria compressa, l’assorbiva e si nutriva di essa, riproducendosi fino a “consumare” tutta la sostanza nutritiva, trasformandola in tutt’altra sostanza, finché, giunto il composto ad una voluta saturazione, si faceva fermare la fermentazione e, tramite vari passaggi e con sostanze chimiche adatte, si depurava il prodotto ottenuto e si cristallizzava come un sale che veniva poi insaccato e confezionato.

Fui il testimone inconsapevole dell’arrivo in Italia, a Roma, del primo ceppo dei batteri, portato come “bagaglio appresso” in una borsa termica da viaggio da uno degli amministratori giapponesi in visita al nuovo stabilimento in corso di ultimazione. L’arrivo a Roma di questo amministratore della casa madre, creò nei giapponesi una grande eccitazione, fin dai giorni precedenti al suo arrivo, tanto da richiedere anche la presenza dei chimici già trasferiti a Manfredonia.

Ed effettivamente, l’importazione di batteri vivi doveva essere severamente vietata o, quanto meno, prima di ammetterne l’entrata in Italia, doveva essere analizzata e valutata l’eventuale pericolosità: proprio ciò che i giapponesi volevano assolutamente evitare. In verità i retroscena di questo ingresso le intuii, più che ascoltati, dalle sonore e sollevate risate dei giapponesi quando i pochi presenti al racconto dell’amministratore, per ragioni di posizione gerarchica, la riferivano agli altri. In breve, aveva “fatto fesso” i doganieri italiani dichiarando che si trattava di cibo dietetico al quale, data la sua avanzata età, non avrebbe potuto assolutamente rinunciare durante il suo breve soggiorno in Italia.

In fabbrica, invece, il batterio era custodito in un’apposita sala sterile costruita nel Laboratorio dello stabilimento e, in questa sala sterile, nessuno era autorizzato ad entrarvi se non un paio di chimici giapponesi. La sala sterile aveva le quattro pareti di vetro. Non appena ci entrava il chimico, il primo suo gesto era abbassare le veneziane per non mostrare all’esterno cosa stesse facendo.

Ritornando al racconto dei patti para-sociali, dopo l’esclusiva della parte tecnico-produttiva della fabbrica che, sotto certi aspetti, era anche comprensibile, l’altra esclusività di competenza dei giapponesi era la parte commerciale, la vendita. Anche questa, in un certo senso, poteva ritenersi comprensibile sapendo che i giapponesi conoscevano tutto del mercato del glutammato in Europa.

Da Amburgo, tramite un vero e proprio servizio di spionaggio industriale a livello europeo, sapevano le quantità prodotte dagli altri produttori, le quantità vendute ai maggiori clienti, e persino le quantità che si sarebbero potuto produrre con la campagna annuale della barbabietola.

Infatti, i principali produttori europei erano gli stessi degli zuccherifici che, però, ottenevano il glutammato dagli avanzi della lavorazione dello zucchero, ma era un glutammato di scarsa qualità e di basso rendimento, puro al 50% mentre, quello del nostro Stabilimento, era puro al 99+% e ad alto rendimento, il che significava un impiego di dosi minori e con più risultato.

Ma prima del nostro, quello impuro era l’unico conosciuto e usato dalle grandi industrie alimentari per la produzione, essenzialmente, del dado per brodo o per i pochi, anzi pochissimi, “piatti pronti” pre-cucinati offerti all’epoca.

Con l’impiego del glutammato di Manfredonia, le più grandi industrie produttrici di dadi per brodo cambiarono la loro pubblicità, ora il piccolo e maleodorante dado da brodo era usato e consigliato per “insaporire” l’arrosto e gli altri piatti cucinati dalla brava cuoca: non è il dado che “insaporisce” i cibi ma il glutammato contenuto nel dado, ed, infatti, sulla confezione si incominciò a scrivere “”a base di glutammato monosodico””.

Qualche fabbrica del nord Italia, con una politica di vendita coraggiosa ed aggressiva, cominciò ad aumentare la gamma delle proprie produzioni, specie se destinate ai servizi di ristorazione e “catering”, introducendo i primi piatti precotti e confezionati, insaporiti ed esaltati nel sapore proprio dal glutammato.

In verità, il problema principale nella fabbricazione dei piatti pronti precotti era l’uso di appropriati additivi chimici destinati a conservare e stabilizzare il composto, additivi che, tuttavia, riducevano o modificavano il sapore del cibo: l’aggiunta del glutammato monosodico permetteva appunto ad esaltare il sapore del prodotto, nonostante la presenza degli additivi chimici.

I primi grandi clienti del nostro stabilimento furono la Star e la Knorr, che si convinsero però solo dopo lunghe e insistenti trattative e prove. Ma la perdita di questi due grandi clienti, ci creò dei nemici tra gli altri produttori che poi, come ha dimostrato in seguito la Magistratura, anche se per altre questioni, esercitavano un vero e proprio “cartello”, a livello anche europeo, controllando tutto il mercato dello zucchero, dalla barbabietola al prodotto finito, ed erano, in Italia, le famose “tre M”, vale a dire il gruppo Monti, quello Montesi e quello Maraldi che, insieme, rappresentavano circa l’85 per cento del mercato saccarifero italiano.

Ma del mercato dello zucchero e della melassa di barbabietola avremo modo di riparlarne più avanti. Ritornando ai patti para-sociali, l’unico aspetto di esclusività italiana, e quindi della INSUD, era la gestione contabile-amministrativa, questo perché i nostri amministratori si illudevano di poter controllare tutta la vita aziendale attraverso il controllo economico di gestione. Ma anche di questo parleremo dopo.

Il Presidente Prof. Signora.

Dopo Musaio-Somma, venne, come Presidente, il Prof. Mario Signora, che, mi pare di ricordare, fosse libero docente di chimica industriale, comunque era stato un combattente della Resistenza e, come tale, amico personale dell’Ing. Mattei dell’ENI e da lui messo alla Presidenza di varie società del gruppo. In seguito, con il passaggio della Terni Chimica all’EFIM, entrò a far parte anche di questo ultimo gruppo, oltre ad essere Presidente e Consigliere di Amministrazione in altre Società varie sparse tra la Campania e il nord Italia.

Dotato di grande carisma e di innata simpatia, oltre che di competenza industriale, entrò subito nelle simpatie dei dipendenti della Società e dei sindacalisti, non disdegnando il contatto diretto con gli stessi sindacalisti e con le maestranze, ma sempre con il dovuto rispetto dei reciproci ruoli, ciò in virtù della sua signorilità, di nome e di fatto.

Si definiva un paladino e tifoso degli italiani del sud, lui lombardo verace, dicendo spesso che noi sudisti eravamo più in gamba e svegli dei nordisti, ci mancavano solo le opportunità e le occasioni. Sotto questo aspetto, non potevamo non essere d’accordo con lui, noi che avevamo scalciato e sgomitato per assurgere ai più alti gradini nell’organigramma aziendale, sempre pronti ad ascoltarlo e riverirlo, senza comunque servilismi o lecchinismi che lui odiava.

Se dunque, in quel fine anno 1976, il Presidente si lamentava che non avevamo capito niente della situazione societaria, se si meravigliava di come i nostri sindacalisti non si fossero fatti avanti per protestare, o comunque, far sentire la loro presenza, voleva dire che, secondo la sua visione della cosa, si avvicinavano avvenimenti sfavorevoli e che, in ogni caso, erano previsti tempi bui per la nostra società e per i suoi dipendenti.

L’avvenimento più recente verificatosi nella vita della Società era stato l’uscita dalla compagine societaria della INSUD e, quindi di conseguenza, l’uscita della Società dall’ambito delle Partecipazioni Statali per diventare a tutti gli effetti una società privata a completo capitale estero. In verità la Commissione Interna dei sindacalisti era stata avvertita di questo movimento ma era stata anche rassicurata che, per i dipendenti, niente sarebbe cambiato.

Dopo l’uscita della INSUD, a ottobre del 1976, tornarono a Manfredonia due ex dipendenti licenziati anni prima, per la precisione un ex Direttore Amministrativo, il Rag. Fraschetti, e l’ex Responsabile dell’Ufficio Acquisti, il Dott. Cappuccio.

Il Rag. Fraschetti fu presentato come il Consulente Amministrativo della Società con sede di lavoro presso il nostro Ufficio Vendite di Milano, questo, evidentemente, per non creare o meglio per non far riemergere le frizioni con me che ero il Responsabile Amministrativo in fabbrica e gli altri impiegati amministrativi, mentre il Dottor Cappuccio fu presentato come il nuovo Direttore italiano dello stabilimento, che affiancava il precedente Direttore giapponese che, però, conservava la delega unica della firma societaria e la rappresentanza legale.
In conclusione, quel Capodanno del 1976-1977 non fu il più sereno per me e per il collega Tavano.

La INSUD

L’EFIM era il terzo Ente statale destinato, come diceva la sigla, al finanziamento delle industrie manifatturiere. In verità, mentre all’IRI predominavano i DC, all’ENI il PSI e il PRI, l’EFIM doveva essere il feudo dei socialdemocratici, per ricomporre il quadripartito al potere.

Si dedicò all’inizio soprattutto a “salvare” per volontà politica quelle industrie ormai “decotte”, sparse “a pioggia” un po’ in tutta Italia, che non erano gradite né all’ENI né all’IRI. Ed infatti, il suo primo “regalo” fu l’acquisizione della Società per l’estrazione e lo sfruttamento dell’alluminio sardo, una impresa da liquidare, con un numero importante di dipendenti e trascorsi storici molto significativi: ciò determinò una buona dotazione finanziaria iniziale per il nuovo Ente.

A nord, la principale e più importante partecipata EFIM era la Breda che fu spezzettata; le attività più economicamente valide furono inglobate nell’IRI (come la Breda armi e la Oto Melara), anche perché complementari alle altre attività del gruppo, tutte le altre (ad es. la Breda Fucine ferroviaria) furono rilevate dalla Finanziaria Ernesto Breda che le gestiva e le controllava, insieme con altre industrie alimentari, meccaniche, tessili e varie ed era, a sua volta, di proprietà dell’EFIM.

Al centro Italia, nel “portafogli” EFIM, all’epoca c’era la Terni Industrie Chimiche, già abbandonata dall’ENI, ma bussava prepotentemente la Terni Siderurgica, in grave crisi industriale e finanziaria, la cui destinazione naturale sarebbe stato il gruppo IRI che aveva altre siderurgiche nel portafoglio, ma che, evidentemente, aveva le sue ragioni per rifiutarla.

Al sud esisteva già la INSUD, una finanziaria con la partecipazione dell’ISVEIMER, l’istituto della “famosa” Cassa per il Mezzogiorno. L’EFIM entrò come azionista minoritario della INSUD ma, a poco a poco, a furia di coprirne le perdite, ne divenne il principale azionista e gestore.

Questa INSUD, oltre a finanziare nuove iniziative industriali, aveva anche “nel portafoglio” la proprietà di una pletora di piccole e medie industrie ubicate nei territori del Mezzogiorno, tutte ampiamente e largamente finanziate tramite la “Cassa” e l’ISVEIMER, ma che poi, per non vederle fallite, venivano acquisite e ristrutturate, anche finanziariamente, e quindi offerte sul mercato ad altri investitori più o meno locali, quando v’erano.

L’Amministrazione della nostra Società era di competenza della INSUD e della EFIM che si riservava la scelta e la nomina del Direttore Amministrativo e, inoltre, aveva propri funzionari nel Collegio Sindacale. Penso che feci invece una buona impressione ai Sindaci della Società quando vennero per una delle solite rituali visite, e vollero controllare la Cassa ed i valori, come previsto e prescritto dal Codice Civile italiano.

Pur essendo giovane, non ero completamente alle prime armi, avendo avuto anche nella mia precedente esperienza di lavoro le visite di Sindaci, anche se erano di piccole Cooperative locali, tuttavia ero perfettamente a conoscenza delle funzioni del Collegio Sindacale. Ero tuttavia irriverente, come tutti i giovani, e mi fece molto ridere l’eccitazione del mio Capo contabile prima della visita, ed il suo nervosismo quando il Presidente dei Sindaci volle rimanere solo con me per controllare i valori di Cassa.

La visita andò bene e ricevetti moderati elogi dal Presidente dei Sindaci, il dott. Antonio Zurzolo. Solo dopo capii e compresi il nervosismo del Capo contabile, quando seppi che il dott. Zurzolo era il Direttore Generale dell’EFIM.

Il primo Direttore Amministrativo, quello che mi assunse, si dimostrò utile per i rapporti con il Comune di Manfredonia e tutti gli altri enti necessari per le numerose autorizzazioni per la costruzione, ma con poca esperienza operativa in fabbrica.

Infatti fu poi subito richiamato presso la sede dell’EFIM per continuare l’opera per altre aziende e fu sostituito da un Direttore operativo, esperto di contabilità e di amministrazione di fabbrica ma, soprattutto, bravo nella gestione delle risorse umane. Nel suo primo anno di lavoro a Manfredonia, questo giovane e simpatico direttore insegnò, a tutti noi amministrativi, il modo di lavorare in squadra, l’individuazione degli scopi aziendali, i moderni sistemi di rilevazione delle spese e di contenimento dei costi.

Si viveva un momento critico nella gestione dei rapporti sindacali tra 1967 e 1969: lui ci insegnò che, nei rapporti con i dipendenti, bisognava prima di tutto essere onesti e severi, ma non arroganti. Riuscì a convincere i giapponesi a riconoscere ai dipendenti e agli operai le categorie ed i livelli retributivi previsti dal contratto di lavoro.

Purtroppo questo Direttore, il Dott. Roberto Italia, romano, dopo un paio d’anni, prese l’epatite virale e rimase fuori della fabbrica per oltre sei mesi, senza tuttavia che il lavoro in ufficio ne risentisse, proprio perché ormai la “squadra” di lavoro era pronta e formata. In ogni caso, dopo la guarigione, rimase pochi mesi e fu subito richiamato presso altre aziende più grandi, lasciando un grande rammarico per la sua bravura e per la sua innata simpatia.

Fu sostituito dal Rag. Fraschetti, un altro esperto amministrativo, quasi sessantenne, che rimase per un più lungo periodo ma che, dopo il licenziamento, ritornò come “consulente” in quel 1976 “fatidico”. Fra il ’73 ed il ’74, il Rag. Fraschetti fu sostituito dal Dott. Cipriani che, per la sua esperienza, entrò a far parte anche del Consiglio di Amministrazione in rappresentanza, appunto, dell’azionista INSUD, ma quest’ultimo merita un capitolo a parte.

Cap. II – GLI INIZI

L’Amministratore Delegato

Ad agosto 1965, quando io entrai in azienda, primo dipendente nativo di Manfredonia, la costruzione delle opere edili era a buon punto e si incominciavano ad ordinare le prime macchine ed i primi impianti. Il caso volle che entrai in azienda con una vistosa fasciatura alla mano destra, per essere scivolato nel corridoio di casa paterna, battendo la mano contro il vetro di un quadretto che mi procurò diversi punti di sutura.

La mattina del lunedì 2 agosto fui accolto dal mio capo contabile e dal mio direttore amministrativo che, però, partì il giorno stesso per Manfredonia per perfezionare in Capitaneria di Porto la pratica per la concessione demaniale del deposito costiero sul porto.

Il giorno dopo, il capo contabile mi consegnò la cassa, comunicandomi che l’indomani partiva per le ferie. Il mercoledì ero l’unico impiegato amministrativo presente e ricevetti, come cassiere, la richiesta di un anticipo per spese di viaggio da parte del capo dei chimici. Come da istruzioni ricevute, compilai un assegno bancario di un milione di lire, sulla Banca Nazionale del Lavoro e lo portai alla firma dell’Amministratore Delegato, il Dr. Fukazawa.

Mi avevano detto che questo Amministratore proveniva dalla carriera diplomatica e, ultimamente, era stato addetto commerciale all’ambasciata giapponese a Parigi. Era un signore dai modi gentilissimi, come e più degli altri giapponesi, e che da oltre vent’anni viveva in Europa. Fu sorpreso e meravigliato dalla mia richiesta e, prima di firmare, mi chiese notizie sulla mia ferita e poi mi chiese, sempre in inglese, di chiamare il direttore amministrativo:

– «E’ a Manfredonia, dottor Fukazawa,» – gli risposi.

– «Ah si! Ricordo! Mi faccia venire allora il capo contabile.» –

– «Non c’è signore, è andato in ferie.» –

Rimase sorpreso e mi guardò in silenzio. Poi guardò le carte che gli avevo portato alla firma, che, oltre all’assegno, comprendevano dei mandati di pagamento da me scritti a mano, con la mano fasciata, per pagamenti da me disposti e che lui doveva autorizzare. E chiese:

– «Chi va allora in banca a cambiare l’assegno?» –

– «Ci andrò io!» – risposi sicuro: – «Ieri sono stato presentato al Cassiere della Banca!» –

Ma, evidentemente, non era quella la sua preoccupazione. Andai in banca, ma prima entrai nel bar a prendere un caffè, poi prelevai il denaro e tornai in ufficio. Rientrando, non vidi al suo posto all’ingresso il fattorino, di poco più vecchio di me, che mi era stato raccomandato di tener sotto controllo per la sua facilità di imboscarsi e dedicarsi ai propri affari.

Misi tutto a posto e, per fare un gesto di cortesia, mi recai di persona a portare il denaro al Dr. Giavelli, il capo dei chimici, che apprezzò molto il mio gesto e restammo per un po’ a parlare, naturalmente, della mia ferita e di Manfredonia.

Nel corridoio, vidi al suo posto il fattorino, piuttosto accalorato e sudato, che mi guardava ad occhi sgranati dalla sorpresa. Più avanti, nel mio ufficio, trovai in piedi al centro della stanza il Dr. Fukazawa che mi aspettava e mi chiese:

– «E’ andato tutto bene in banca?» –

– «Yes Sir, of course! (Sì signore, naturalmente!)» –

Solo dopo qualche minuto, riflettendoci sopra, mi sembrò che ci fosse qualcosa di strano.

L’ufficio di Roma era al centro, a Via Bissolati, la strada dove si trovavano gli uffici di rappresentanza di quasi tutte le linee aeree internazionali e sicuramente di tutte le più importanti. Il nostro ufficio era al primo isolato verso Via Nazionale, mentre all’altro estremo, verso Via Veneto, al terzo ed ultimo isolato, quasi di fronte all’Ambasciata USA, c’era l’edificio della Banca Nazionale del Lavoro. Proprio di fronte ad un ingresso secondario della BNL, a Via San Basilio, alle spalle dell’ingresso principale di Via Veneto, c’era il bar dove avevo preso il caffè.

C’era un grande bar proprio sotto il nostro ufficio a Via Bissolati, era un American Bar, nel senso che vi si poteva mangiare anche una bistecca o un piatto di pasta, e qui al mattino, prima delle otto e trenta, facevo la colazione con cappuccino e cornetto, ma il caffè di mezza mattina preferivo prenderlo all’altro bar, perché, come mi aveva fatto subito notare un collega più anziano, in quell’American Bar, dopo le nove del mattino, sulle tazze ci potevi trovare tracce di rossetto di tutte le nazioni e continenti del mondo, ed era vero.

Quando, nell’intervallo per il pranzo, chiesi al fattorino perché fosse uscito dopo di me, quello mi riferì invece che, subito dopo di me, era uscito il Dr. Fukazawa, non prima di aver chiesto di me in maniera concitata, tanto che lo stesso fattorino, preoccupato, pensò che io avessi dimenticato qualcosa che lo stesso Amministratore mi stata riportando, rincorrendomi.

In pratica, appresi che Fukazawa mi aveva seguito a distanza, mentre io ero entrato in banca dalla porta posteriore, ne ero uscito subito dopo dal portone laterale di Via Bissolati per tornarmene in ufficio, lasciando Fukazawa a Via San Basilio a spiare e attendermi. Quando non mi vide più in banca andò forse a chiedere notizie al Cassiere, uscendo subito dopo.

– «Quando l’ho visto uscire,» – continuò il fattorino, – «mi sono messo a correre e l’ho preceduto di poco. E lui mi fa: il ragioniere? E io, nel suo ufficio! Poi, invece, t’ho visto arrivare dall’altra parte, dall’altro corridoio!» –

Tentai di trovare una spiegazione a tutto quanto avevo ascoltato: raccontai che forse aveva dei dubbi sulla mia capacità di poter ritirare il danaro dalla banca, come, del resto, si era espresso al momento della firma dell’assegno, forse perché era accaduto a lui di incontrare delle difficoltà in banca.

Invece avevo la netta sensazione che avesse pensato che potessi scappare con la cassa: proprio io che, nel mio lavoro precedente, avevo maneggiato spesso anche molto più di un milione di lire. Alla verifica dei miei primi stipendi ricevuti a Roma, dove ci rimettevo del mio ogni mese, poteva anche giustificarsi la diffidenza dell’Amministratore. In ogni caso, c’era sicuramente una certa diffidenza nei confronti degli italiani, ma anche questi, gli italiani, non erano esenti da colpe e prevenzioni verso i giapponesi.

Lo Staff tecnico

Il Calendario Cinese: ne sapevo l’esistenza ma non avevo avuto mai occasione di farne la conoscenza. Ne sentii parlare per la prima volta la sera del 5 gennaio dell’anno 1966, scoprendo che aveva un ciclo di dodici anni, nel senso che, per dodici anni, ogni anno era rappresentato da un animale, al tredicesimo anno si riprendeva la rappresentazione daccapo, come al primo.

Quella sera del 5 gennaio 1966, vigilia di un giorno festivo, ero in una saletta riservata del Ristorante Sistina, in Via Sistina a Roma, di fronte al mitico Teatro e tempio dello spettacolo leggero e del musical italiano, palestra della premiata ditta Garinei & Giovannini e di tutti gli altri più famosi attori ed autori dello spettacolo più o meno leggero italiano.

Al tavolo del Ristorante una ventina di commensali, italiani e giapponesi misti, ed io ne ero praticamente uno degli ultimi, essendo stati assegnati i posti rispettando scrupolosamente le scala gerarchica dell’organigramma aziendale, per cui, il mio dirimpettaio era il disegnatore giovane mentre, alla mia sinistra, c’era il mio unico collega pari grado, assunto da meno d’un mese e, di fronte a lui, c’era l’usciere.

A capo tavola, quindi dall’altra parte rispetto al mio posto, sedeva l’anfitrione, l’Amministratore Delegato della nostra Società, il dott. Fukazawa di nazionalità giapponese e di religione buddista.

E fu appunto l’Amministratore Delegato che, prima di iniziare la cena, volle motivare quella serata ricordandoci che, in quel nuovo anno appena iniziato, il nostro Stabilimento di Manfredonia sarebbe stato ultimato entrando in produzione, voleva augurare quindi buon lavoro a noi dipendenti e, soprattutto, una lunga e ricca vita alla nostra Società, sottolineando a questo punto che tutti gli auspici erano favorevoli in quanto, fra pochi giorni, sarebbe iniziato il nuovo anno cinese rappresentato dal “cavallo”, animale nobile che galoppa e corre e che, quindi, avrebbe fatto galoppare anche il nostro Stabilimento, la nostra Società con tutti i suoi dipendenti.

La costruzione dello stabilimento era organizzata e diretta dal Giappone. Tutti i disegni tecnici arrivavano dal Giappone infatti, anche se non pervenivano direttamente alla sede dell’Ufficio, ma al domicilio dei tecnici giapponesi, come effetti personali spediti da privati a privati. Questo sistema, che era solo ipotizzato dai tecnici italiani, io ebbi modo di accertare con sicurezza quando poi fui messo a dividere la mia stanza con i tecnici giapponesi, ciò finché non fu assunto l’altro Ragioniere e, con il Capo contabile, potemmo creare insieme un “reparto”.

Ma fintanto rimanevo il più giovane e l’ultimo arrivato, ero il primo a traslocare ad ogni nuovo arrivo, finché mi sistemarono nella grande stanza dei giapponesi, ed ebbi modo di studiare loro ed il loro modo di pensare, e questo ancor più quando arrivò a Roma il Dr. Yamada, l’unico “consulente” amministrativo.

Era un laureato in giurisprudenza, anche lui poco più vecchio di me, e voleva assolutamente imparare l’italiano, per cui facemmo un patto, lui con me parlava italiano ed io dovevo correggerlo in caso di errori, ed io con lui parlavo in inglese, con lo stesso obbligo per lui. Per aumentare le occasioni di “studio”, evidentemente, prese a venire con noi, nell’intervallo meridiano, a mangiare nella vicina mensa del Ministero dell’Agricoltura, almeno fino a quando non arrivò a Roma la sua famiglia. Anche costui ritornò poi in Italia in quel fatidico anno 1976.

In effetti, il numero degli impiegati variava continuamente per le nuove assunzioni e per i trasferimenti a Manfredonia dopo il periodo, più o meno breve, di istruzione a Roma.

Per ogni team di italiani, c’era la corrispondente squadra di giapponesi. In ordine gerarchico, dopo Fukazawa, c’era l’ingegnere Saito, responsabile giapponese della costruzione, e il chimico capo della produzione industriale, dr. Komori. I due responsabili avevano alle proprie dipendenze gruppi di tecnici e chimici giapponesi che svolgevano il lavoro materiale, di numero molto variabile.

A fronte di questi, c’era il gruppo dei chimici italiani, capitanati dal Dr. Giavelli, proveniente dalla Squibb svizzera, ma da una fabbrica in Francia, dove aveva conosciuto la moglie che aveva sposato di corsa, pochi giorni prima di andare in Giappone.

A capo del laboratorio chimico ci sarebbe stato il Dr. Cantarella, torinese dalla Schiaparelli, poi c’era il Dr. Giappicucci, romano che aveva girato il mondo, e il Dr. Fontana, bolognese. Tutti questi chimici erano molto bravi e molto esperti, specie i primi tre. L’ultimo dei chimici era il Dr. Giorgio Gilli, nato nel Trentino ma figlio di coniugi baresi, giovane ed appena laureato.

L’altro staff tecnico, quello che si occupava della costruzione, era capitanato dall’Ing. Ciceri, milanese, bravo ed esperto, sempre distratto o assorto nei suoi pensieri, altissimo e dalla camminata sbilenca.

Lo staff dell’ing. Ciceri, tutta gente molto esperta, era in gran parte già al lavoro presso il cantiere di Manfredonia, come il geom. Caponio, barese, che praticamente costruì tutte le parti in muratura. C’era un bravo perito meccanico milanese e uno strumentista pneumatico marchigiano, si era alla ricerca di uno strumentista elettronico.

Restavano invece fissi a Roma i due disegnatori tecnici, un giovane ed uno molto anziano. Infatti i disegni giapponesi venivano ridisegnati per i tecnici italiani, rivisti dai tecnici giapponesi, approvati dall’Ing. Saito e, quindi, firmati dall’Ing. Ciceri. Gli impianti chimici subivano la stessa procedura. Le caratteristiche tecniche arrivavano dal Giappone, tradotte in inglese dai tecnici giapponesi, ritradotte in italiano dai chimici e dai tecnici italiani.

Si stendeva quindi l’ordine di fornitura in italiano che, però, prima di essere trasmesso, veniva tradotto in inglese dagli italiani, poi in giapponese dai tecnici nipponici, approvato dall’Ing. Saito e firmato dal Dr. Giavelli o dall’Ing. Ciceri, oltre che dall’Amministratore Fukazawa con valore di impegno finanziario. Si saltò un passaggio quando il Dr. Komori, il chimico, andò a Manfredonia a seguire direttamente i lavori.

Tuttavia, prima di andar via, Komori ebbe un lungo colloquio con me, solo perché ero l’unico indigeno locale di Manfredonia. Si informò sulle abitudini locali, sui nomi dei medici, sui pediatri più bravi, sui ristoranti, sui meccanici riparatori d’auto, sulle farmacie e sui negozi più importanti, prendendo debita nota di tutto. Questo perché, verso la fine di agosto, portò a Manfredonia moglie e figlie.

Tutti gli ordini ed i contratti di fornitura dei materiali e dei lavori, venivano compilati dall’Ufficio Acquisti, dall’Ing. Porcelli, un anziano ed esperto pensionato, con lunga militanza nella Breda, affiancato da un avvocato barese.

Tutti i chimici italiani, che erano stati circa un mese in Giappone, per uno stage sugli impianti presso la casa madre, trattavano i corrispondenti chimici giapponesi con rispetto e simpatia, anche se, tra loro, ne sparlavano dicendone peste e corna. Gli altri tecnici italiani trattavano i giapponesi con curiosità e qualcuno con sufficienza.

Essendo la società nell’orbita delle Partecipazioni Statali, era stato concordato, evidentemente, che le forniture ed i lavori sarebbero stati affidati, nei limiti del possibile, alle altre aziende parastatali, con preferenza per le baresi e le meridionali. Ciò anche in considerazione che il Contributo a fondo perduto erogato dalla Cassa per il Mezzogiorno per i nuovi investimenti nel Sud, era in misura maggiore per gli acquisti da aziende del Mezzogiorno e, similmente, il finanziamento a tasso agevolato.

Tutte le opere edili e murarie erano affidate alla Società “Giovannini & Micheli”, introdotta presso tutte le aziende parastatali, gli impianti elettrici alla “Energie”, con sede a Bari, una società che aveva assorbito varie altre piccole imprese meridionali.

Due ingegneri di questa Società, la Energie appunto, vennero richiamati a discutere dei loro disegni esecutivi con l’Ing. Saito e l’Ing. Ciceri, in mia presenza, visto che dividevo la stanza con Saito e due altri tecnici giapponesi.

In pratica, Saito aveva trovato molte cose sbagliate nei disegni e negli schemi elettrici preparati. Lui ne aveva discusso, come al solito animatamente, con Ciceri che li aveva riferiti alla Energie e questi avevano contestato i rilievi perché ingiustificati.

Quando vennero i due giovani ingegneri, si sedettero davanti a Saito con molto sussiego e sufficienza. Dopo i primi preamboli, Saito prese il disegno e cominciò a svolgerlo sulla propria scrivania e, con un pennarello rosso, cominciò a segnare con grossi tratti, i punti errati, come un maestro che corregge il compito degli allievi.

Gli ingegneri della Energie prima reagirono timidamente, poi incominciarono a protestare, dicendo di aver seguito le direttive e le prescrizioni ricevute dal nostro ordine di fornitura, ma, quando Ciceri li invitò a rileggere l’ordine, confessarono di non averlo portato con sé, dimostrando la scarsa preparazione o la poca importanza data all’incontro. Ciceri prese la sua copia che io mi preoccupai di fotocopiare per i due tecnici, mentre Saito mise fuori la propria copia in giapponese.

Alla fine, pur non comprendendo quanto dicevano, essendo termini strettamente tecnici, con Ciceri che parlava in inglese con Saito ed in italiano coi due ospiti, dedussi che avevano davvero sbagliato, dimostrando di aver svolto con molta approssimazione il proprio lavoro, sottovalutando i committenti e, soprattutto, non avevano capito il significato di molte soluzioni tecniche adottate o solo richieste dai giapponesi, soluzioni che in Italia, all’epoca, erano sconosciute o non applicate, ritenendole inutili o inutilmente dispendiose. In pratica, davanti ad una soluzione tecnica per loro sconosciuta o semplicemente nuova, l’avevano ignorata adottando la propria o quella a loro nota, dando per scontato che i giapponesi si fossero sbagliati.

Qualche mese dopo, a Manfredonia, ero diventato amico del capo cantiere barese della Energie, colui che dirigeva i lavori, e non potei fare a meno di raccontargli la scena cui avevo assistito.

Da lui ebbi la conferma che i due ingegneri della Energie non avevano capito niente, che la Società aveva firmato il contratto di fornitura sulla base dei disegni predisposti dai due ma che, quando furono rifatti e corretti secondo la esatta interpretazione delle prescrizioni, risultò che il prezzo pattuito era stato esageratamente basso e poco remunerativo, e i due furono licenziati.

Stesso atteggiamento di sufficienza vidi nei tecnici di una grande e storica società siderurgica genovese, l’Ansaldo, alla quale erano stati ordinati i due fermentatori in acciaio inossidabile, cioè i giganteschi serbatoi nei quali avveniva la fermentazione della melassa, la prima e la più delicata fase della lavorazione. In questo caso erano meno giovani e si discuteva in via preventiva e senza disegni.

Qui, subito all’inizio, avvenne che uno degli ingegneri fece osservare che forse c’era stato un errore, in quanto era stato previsto un certo tipo di acciaio inox speciale anche per bulloni e dadi, mentre era risaputo che, in effetti, nessuno aveva mai usato bulloni di tale materiale. Alle insistenze di Saito, uno degli ingegneri si rivolse in milanese a Ciceri:

– «Via! Non perdiamo tempo! Lo convinca lei che tali tipi di bulloni non esistono in Europa, figuriamoci se li hanno loro!» –

– «Signori miei!» – rispose Ciceri: – «Se li hanno previsti, significa che “loro” li hanno e li usano anche!» –

Saito era un vero Samurai e aveva oltre quarantacinque anni. Il Samurai, mi spiegarono, era il capo ereditario di una grande e nobile famiglia e, quindi, oltre alle materie tecniche della sua facoltà, aveva avuto una educazione tipo principe regnante, cioè istruzione umanistica orientale, arti marziali giapponesi, uso delle antiche armi e studi tecnici presso le migliori Università, con Stage e Master presso le più importanti Università della California, USA.

Era alto e massiccio, con grande testone, tanto che, vedendolo da lontano, si sarebbe pensato fosse un “piccoletto” come i suoi connazionali; il suo modo di camminare mi ricordava quello tipico visto nel film, con cintura bassa sotto la pancia e passo leggero, quasi in punta di piedi. Parlava in ufficio un inglese ruvido ed elementare, con la sua voce gutturale, e capiva abbastanza bene l’italiano, anche se non lo dava a vedere e non lo parlava mai.

Questo per spiegare che aveva capito la conversazione dell’ingegnere italiano e, infatti, partì un ordine secco, in giapponese, verso il suo collaboratore, che uscì immediatamente e tornò dopo un quarto d’ora con un telex ed uno dei loro soliti foglietti in carta di riso sui quali scrivevano a mano, era l’elenco di tutte le fabbriche che producevano i bulloni in quel tipo speciale di acciaio: in Europa c’erano due svedesi, due tedesche e una italiana, in Giappone ben sei e una a Singapore.

I rapporti di lavoro tra Ciceri e Saito erano quanto mai tempestosi e animati, ed io ne ero, mio malgrado, il testimone. Avevo assistito a tante discussioni e battibecchi, ma avevo capito che, in fondo, si stimavano vicendevolmente. Naturalmente i diverbi nascevano sulle diverse vedute circa le soluzioni tecniche da adottare e sui prezzi da riconoscere ai fornitori, e avvenivano sempre in inglese, lingua che entrambi, evidentemente, dominavano perfettamente.

Se l’argomento era di natura chimica, allora al fianco di Ciceri interveniva il Dr. Giavelli e, con lui, Saito era sempre meno irruente e la conversazione aveva un tono più calmo e sommesso.

Una di queste discussioni a tre fu particolarmente lunga e complessa, trascinandosi per diversi giorni. Quando i due italiani parlavano tra loro, capitava spesso che conversassero in francese, forse perché sapevano che Saito non lo capiva, ma, una volta, anziché parlare di termini tecnici, Giavelli fece un commento piuttosto salace su Saito.

Io avevo la testa sul mio lavoro ma capii il commento ed ebbi un involontario scatto e sorriso poi, allarmato, alzai il capo e guardai prima Saito e poi Giavelli: Saito stava guardandomi con occhi furbi, Giavelli guardò prima lui poi me, allarmato. Da quel giorno i nostri due tecnici non usarono più il francese, ma parlarono in tedesco, una lingua di cui a stento conoscevo il significato di una diecina di vocaboli, oppure una lingua per me veramente ostica e del tutto incomprensibile: il bergamasco.

Il processo produttivo

Nella produzione di glutammato, i giapponesi avevano, come già detto, una esperienza più che secolare e, come sistema, avevano l’abitudine di registrare e conservare nella storia tutti gli incidenti e gli inconvenienti che si fossero verificati e incontrati nel corso del processo produttivo, di ogni tipo e genere.

I loro tecnici, prima di essere assunti, facevano uno stage aziendale e dovevano imparare a memoria tutti gli inconvenienti con tutti i relativi rimedi e le soluzioni adottate e praticate, e quanti più episodi dimostravano di conoscere, più probabilità avevano di essere assunti e impiegati sui reparti produttivi.

Negli uffici romani, come normale orario di lavoro, avevamo un intervallo per il pranzo per più di due ore, appena sufficiente per coloro che andavano a mangiare a casa propria, ma troppo lungo per me che mangiavo alla mensa del Ministero dell’Agricoltura, a cinquanta metri dall’ufficio, e che, in poco più di mezz’ora, avevo ben che finito tutto.

C’era sempre qualche collega dello staff tecnico che mi faceva compagnia alla mensa, mentre il più anziano dei disegnatori rimaneva in ufficio con il panino, e accadeva quindi, molto spesso, che si rientrasse in ufficio molto prima dell’orario previsto, rimanendo a chiacchierare nella grande stanza dei disegnatori, tra l’altro l’unica con finestre sulla Via Bissolati.

Fu proprio in questi colloqui con l’anziano disegnatore e con gli altri colleghi tecnici che appresi tutti gli aspetti più interessanti e particolari dello stabilimento e della produzione. Anzi, per non smentirsi, un pomeriggio il dr. Fukazawa, prima dell’orario di lavoro, sorprese me ed il disegnatore a colloquio davanti al disegno tecnico proprio del processo, e rivolse, sorridendo, un garbato e gentile richiamo all’anziano disegnatore ed a me di ignorare e dimenticare tutto quel che c’eravamo detti, essendo riservato.

Tra l’altro mi saltò subito agli occhi la stranezza del nome dato ai vari reparti di produzione: si partiva da “H2”, per andare poi a “H4”, “H5” e “H6”, saltando il numero uno e il numero tre. Appresi che l’H1 sarebbe stato il reparto per ottenere la melassa di barbabietola ma, la cosa più interessante, il reparto H3 poteva essere il reparto più importante dello stabilimento in quanto, con l’utilizzo di una parte della sostanza fermentata, vi si poteva produrre molti tipi di aminoacidi e in quantità industriali.

I reparti H2 e H5 formavano un unico blocco, avendo vari piani di lavoro in comune tra loro, anche se ben separati. Nello stesso blocco, al piano terra, c’era il reparto H6, dove si insaccava e confezionava il prodotto che, attraversando una cancellata, veniva stivato nel magazzino. Il reparto H4, grande forse più degli altri tre messi insieme, faceva blocco a sé e separato.

Mi spiegarono, in pratica, che la fabbrica era costruita a struttura modulare, nel senso che aveva spazio sufficiente per costruire il famoso reparto “H3” mancante e prevedeva dall’origine la possibilità di raddoppiare gli impianti esistenti, anche per le cosiddette utilities, cioè aria compressa, caldaie a vapore ed energia elettrica.

L’unica struttura che, anche ad un occhio inesperto, dimostrava di “largheggiare” come spazi e dimensione, era il laboratorio chimico, già pronto quindi a qualsiasi progetto di espansione. Infatti, tutto il processo di produzione industriale veniva ripetuto, in scala ridotta, nelle sale del Laboratorio chimico da dove poi si avviava, in effetti, l’intero processo produttivo.

Dopo qualche anno dall’inizio della produzione, parlando con un perito chimico italiano che lavorava in Laboratorio, mi riferì che aveva avviato, in via sperimentale, d’accordo con i chimici giapponesi, una specie di reparto H3, per poter quantificare, in scala ridotta, il prodotto che si sarebbe potuto ottenere nella eventuale lavorazione industriale.

Mi mostrò un recipiente in vetro, contenente, per un paio di litri, una polvere finissima e bianchissima, dicendomi che lo aveva ottenuto dal materiale fermentato che, normalmente, si buttava in fogna, che quella polvere era un aminoacido molto richiesto dalle industrie farmaceutiche che lo pagavano al prezzo di 40 mila lire (anni settanta) al grammo, mentre lui ne aveva prodotto in pochi giorni, nei ritagli di tempo, oltre due chili.

Il Dr. Cantarella era un chimico di vasta e documentata esperienza, ed era destinato a diventare il Capo del Laboratorio. Quando da Roma fu trasferito a Manfredonia, venne subito a cercarmi per chiedere informazioni. Ci accordammo per andare in auto insieme a Manfredonia un sabato, lui per trasferirsi con la moglie in albergo, io per portare a casa i panni sporchi da lavare, risparmiando le spese del treno.

Ebbi modo di conoscere lui e sua moglie, avendo la conferma che era un vero signore torinese dai modi fini e cortesi, poco esperto di viaggi in auto, tanto che, diceva, “avrebbe sbagliato strada anche nel “Sahara”. Non so cosa avvenne nei suoi pochi mesi di lavoro a Manfredonia, so soltanto che ancor prima dell’avvio dello stabilimento per la produzione industriale, il Dott. Cantarella se ne tornò, insalutato ospite, alla sua Torino ed alla sua Schiaparelli, raccogliendo allori e successi, come ebbi modo di apprendere, in seguito, dalla stampa.

Quasi tutti i giapponesi, in questa fase e prima di trasferirsi a Manfredonia, venivano da me per informarsi sulla vita paesana a Manfredonia, facendomi le solite domande sugli alberghi e sui ristoranti, o sui dottori o sui meccanici per auto. Ci fu uno solo, il Dr. Okada, un chimico piccoletto e sempre sorridente, che venne con una agenda multilingue, comprata in cartoleria, e mi chiese notizie e spiegazioni su tutte le festività italiane, ovvero le numerose giornate in cui, all’epoca, normalmente non si lavorava.

Ad ogni mia spiegazione, lui annotava con una matita a mina Pilot, naturalmente in giapponese, ciò che gli dicevo sulla pagina dell’agenda del giorno in questione. Poi rileggeva quanto scritto e ripeteva: – «A-scen-sio-ne, ne-skà? Ah so de-skà!» – e restava per un lungo minuto in silenzio.

Avevo iniziato a spiegare dettagliatamente le ragioni della festività, poi, specialmente per le religiose, mi trovai in difficoltà, perché, per esempio, tra Pasqua, Ascensione e Corpus Domini, il festeggiato era sempre lo stesso e lui mi chiese: – «Ancora per Gesù?» – e sorrideva scuotendo la testa.

Stesso commento per le festività della Madonna, finché arrivammo all’8 dicembre, che io non nominai ma che lui lesse distintamente e poi mi formulò la temuta domanda:

– «Che significa Imma-co-la-ta Con-ce-zione?» –

Ci pensai bene prima di rispondere e, infine, con un po’ d’inglese e un po’ di italiano, cercai di spiegargli il Dogma della Vergine e Madre.

Ci pensò sopra per parecchi minuti, guardando alternativamente me e l’agenda, poi guardandomi diritto negli occhi: – «Do you know it’s impossible? Ne-skà? (Lei sa che è impossibile? Nevvero?)» –

Cap. III – L’AVVIO

I Lavoratori

Nella prima metà del mese di maggio del 1966, terminò il mio soggiorno a Roma e fui trasferito a Manfredonia, preparando il trasloco di tutto il resto degli impiegati che avvenne poi ai primi di giugno. In fabbrica c’era il Direttore, l’ing. Raffetto, milanese, che aveva già incominciato i colloqui per la scelta e l’assunzione degli operai.

Subito dopo la mia assunzione, a Roma, avevo ricevuto tra le mani, con l’incarico di classificare e ordinare, la montagna delle domande di assunzione dei miei compaesani che aspiravano ad un posto di lavoro in quella che era la prima industria installatasi a Manfredonia, e molti erano amici miei o solo conoscenti.

Con l’anno nuovo e avvicinandosi l’avvio della produzione, molti di quelli che prima aspiravano ad essere assunti come impiegati, rifecero la domanda per entrare come operai, e molti nascondevano il possesso di un diploma di scuola superiore.

Il dott. Cantarella, capo del Laboratorio chimico, mi aveva detto che, secondo lui, il miglior operaio addetto al Laboratorio sarebbe stato un “quasi” diplomato, considerato che non si sarebbero trovati degli esperti “analisti chimici” in zona ma si sarebbero dovuti istruire con corsi di formazione interni. Infatti, i primi assunti del Laboratorio furono giovani diplomati che, ai fini dell’assunzione, avevano nascosto il possesso del diploma.

A metà giugno fu assunto il grosso della manodopera ed ognuno aveva la propria destinazione, assegnatagli dal Direttore, coadiuvato dai vari capi reparto, i chimici italiani. Devo confessare che la scelta del Direttore fu quanto mai oculata e motivata, anche se spesso dovette ascoltare le “segnalazioni” delle varie autorità.

La maggior parte degli operai era, naturalmente, originaria di Manfredonia o quivi residente, ma v’erano anche provenienti da Monte Sant’Angelo, Mattinata, San Giovanni Rotondo e da Foggia, anzi molti dei tecnici della manutenzione erano foggiani.

All’inizio volli tentare di dare dei “consigli” al Direttore, ma lui mi fermò subito, invitandomi a restare al mio posto. Solo dopo aver rispettato la consegna, fu lui stesso che, in alcuni casi, mi chiese dei pareri su alcune persone, ma ponendomi delle domande ben precise alle quali dovevo rispondere con sicurezza, e senza commenti non richiesti.

Le domande di lavoro furono molte più di mille, ne furono assunti circa duecento che, immediatamente, acquisirono ottocento nemici, frustrati e inappagati, che stavano alla finestra pronti a denigrare gli assunti, la fabbrica, il lavoro e chissà che altro, in ciò motivati e incoraggiati anche da coloro che, ed erano molti, continuarono a svolgere il proprio vecchio lavoro, in nero.

Tutti gli operai furono assunti e inquadrati nel quinto livello, il più basso del Contratto di Lavoro, percependo un salario di poco più di quaranta mila lire al mese, ma quasi tutti restarono, con la speranza che, prima o poi, il livello sarebbe migliorato.

Furono assunti, per i reparti di produzione, operai edili, ex artigiani, ex operai dell’industria rientrati dal nord Italia o dalla Germania. Uno dei primi assunti era un sarto da uomo, ben conosciuto in paese che, evidentemente, aveva chiuso bottega e si era iscritto disoccupato all’Ufficio di Collocamento: questo determinò la chiusura di tante altre sartorie in paese.

Lasciarono subito il posto, licenziandosi, quelli che non potevano accettare un così misero salario, o perché impegnati con debiti o mutui ipotecari per l’acquisto dell’abitazione, e ripresero la via dell’emigrazione in Germania, oppure perché avevano altri sbocchi più remunerativi, ancorché precari, ed era il caso degli ausiliari della pesca marittima che guadagnavano occasionalmente molto di più ed in nero; un paio ritornarono ad imbarcarsi sulle navi mercantili, ed erano i diplomati dell’Istituto Nautico che, secondo me, tra gli Istituti Tecnici, per le materie studiate, è quello che forma i tecnici di più alto profilo.

Per le officine e i servizi tecnici di fabbrica, furono assunti meccanici ed ex artigiani, ma la ricerca fu ardua per l’assunzione dei tecnici patentati per la conduzione delle caldaie a vapore, non perché non si trovassero, ma perché non accettavano il salario loro offerto, per cui si andò alla vera trattativa, offrendo categoria superiore e superminimi. Stessa cosa per qualcuno dei meccanici o degli elettricisti più esperti.

Il primo e più anziano dei fuochisti patentati era anche colui che riuscì ad avere il salario più alto e la terza categoria, e tutti n’erano a conoscenza. Sarà stato per questo motivo che una notte, agli inizi dell’attività, fu chiesto il suo intervento per un’emergenza: nel pompare la soda caustica dal serbatoio al reparto, ci si accorse che la tubatura aveva una perdita e riversava in parte a terra.

Non era stato ancora creato il responsabile di turno ma, in ogni caso, non era suo compito intervenire, al massimo avrebbe dovuto svegliare il proprio superiore che, a sua volta, avrebbe dovuto svegliare il responsabile della manutenzione, che avrebbe dovuto svegliare una squadra d’operai per l’emergenza: tranne questi ultimi, gli altri erano tutti forestieri. Ma lui voleva dimostrare che la manodopera locale era all’altezza di qualunque situazione.

Era un fuochista che, fino allora, aveva molto navigato su navi mercantili in tutto il mondo. Mise insieme una squadra d’emergenza e, indossata la cerata dei pompieri, si pose sotto il grosso getto di una manichetta d’acqua che gli pioveva sul capo, sul cappello a falde larghe da pompiere, e con occhiali e saldatore, mise una “pezza” provvisoria alla tubazione senza interrompere il flusso della soda caustica nel tubo d’adduzione.

Al mattino, tutti i capi, italiani e giapponesi, appresero della cosa, e grande fu la meraviglia generale. Il Direttore, invece, lo mandò a chiamare sul tardi, si fece raccontare il tutto e poi: – «Per il buon esito dell’intervento, per non aver dovuto fermare la produzione, lei si aspetta un elogio. Poiché tuttavia non era suo compito ed ha rischiato la propria incolumità, sono costretto a comminarle un rimprovero ed un’ammonizione a non ripetere più un fatto simile.» –

– «Direttore!» – rispose il fuochista: – «Non potevo tirarmi indietro! Dovevo pur dimostrare di che pasta siamo fatti noi sipontini!» –

– «Infatti, prima le ha parlato il Direttore Responsabile! Come uomo e come tecnico, le devo dire solo: BRAVO!» –

Il fuochista si chiamava Candido Collicelli ed era una persona retta e generosa, oltre ad essere affettuoso padre di molti figli.

Ma v’erano anche aspetti negativi. Una mattina fui chiamato dal Direttore per mostrargli alcuni documenti, ma prima mi chiese di attendere che terminasse di firmare alcune carte, invitandomi a sedere. Ad un certo punto scoppiò a ridere fragorosamente, al suo solito, commentando: – «…orca! Li hanno fatto fuori in tre mesi!» – Chiesi di cosa si trattasse e lui mi spiegò: – «Mi chiedono di acquistare una nuova serie di chiavi fisse per l’officina. Sa che significa? Che in tre mesi dall’inizio dell’attività, sono sparite tutte le chiavi, se le son prese e portate a casa!» –

Naturalmente mi sentii molto umiliato e rammaricato della cosa, anche se, come tutti gli altri dirigenti e superiori, spesso dimenticavano che io fossi un indigeno. Ma poi, evidentemente, leggendo in faccia il mio sentire, continuò chiarendo:

– «Guardi che è una cosa normale, che avviene in tutte le fabbriche! D’altronde, noi possiamo mettere un controllore: ma quanto ci costa? Lei sa meglio di me quanto costa un dipendente, senz’altro più del milione di lire, quanto costano quattro serie di chiavi in un anno! Senza dire che poi ci vorrà un controllore del controllore, e via di seguito. Del resto, prima o poi, il fenomeno diminuisce e si esaurirà, anche se mai del tutto: completeranno la serie di chiavi a casa propria o in officina, no? Mica possono mangiarle?!» –

I giapponesi.

Non si trasferì a Manfredonia il Dr. Fukazawa, che rimase presso l’Ufficio di Roma con Yamada almeno per un altro anno, prima di essere sostituito da un nuovo Amministratore Delegato, sempre giapponese.

Si avviò la produzione, con gli immancabili intoppi e gli inevitabili errori. Ogni reparto di produzione aveva il suo Capo Reparto, uno dei bravi chimici italiani, affiancato dal “consulente” giapponese, uno o più di uno, già esperto della lavorazione. C’erano poi i Vice, almeno due per reparto, assunti tra i diplomati in Agraria, pratici di Chimica organica.

Purtroppo nessuno dei Periti Agrari era di Manfredonia ma provenivano dai paesi del circondario, e si trovarono a stretto contatto con alcuni altri diplomati operai. La manodopera fu divisa in gruppi e, per ogni reparto, c’erano i turni di lavoro che coprivano tutte le 24 ore della giornata, compreso la domenica.

I chimici italiani svolgevano il proprio lavoro durante le ore diurne e, dopo dieci ore, tornavano alle proprie case. I chimici giapponesi che li affiancavano erano presenti anche sedici o diciotto ore al giorno, soli o con altri colleghi. La colonia dei tecnici giapponesi in questo periodo era arrivata a circa una ventina di tecnici, compreso i capi chimici, e questi ultimi impartivano ordini, al principio, solo ai propri assistenti, ma spesso con modi violenti e poco usuali per la realtà italiana.

A questo punto, forse, è bene chiarire com’era intesa l’organizzazione aziendale giapponese. Il giapponese, per natura e per educazione, aveva il massimo rispetto per le gerarchie e per i superiori, ma era, più che un rispetto, quasi una venerazione, prova ne sia la serie di inchini che, per consuetudine, variavano a seconda il diverso grado gerarchico tra le persone che s’incontravano: più profondo e insistito se il superiore fosse uno o più gradini più in alto dell’altro.

Il lavoratore giapponese, una volta assunto da un datore di lavoro, era sicuro che ci avrebbe lavorato insieme per tutta la vita, sempre che si fosse comportato in maniera da soddisfare le richieste e le esigenze del lavoro. Il datore di lavoro, per togliere dalla mente del lavoratore ogni eventuale “distrazione” che potesse influire sul rendimento, si preoccupava direttamente della salute del dipendente e della sua famiglia, dell’educazione e dello studio, anche dello stesso dipendente se questi mostrava di esserne particolarmente inclinato, nonché della sua vecchiaia.

Un triste destino attendeva il dipendente cacciato via con demerito: difficilmente avrebbe trovato qualcuno disposto ad assumerlo e si sarebbe dovuto accontentare di mansioni umili e disprezzate da tutti, oppure diventare un mendicante o, peggio, un delinquente.

Se s’ingrandiva l’azienda, il lavoratore era felice perché, oltre a consolidarsi il proprio lavoro, poteva sperare che, un domani, se avesse meritato, poteva entrare nella stessa azienda suo figlio, ciò perché, in ogni caso, la società giapponese era soprattutto “meritocratica” ma anche “paternalistica”.

E proprio come un “pater familias”, severo e inflessibile, si comportava il “capo”, a qualsiasi livello, premiando i bravi e punendo i cattivi. Di sindacato, neanche l’ombra.

Tra i nostri chimici che erano stati nella “casa madre” giapponese, aveva fatto molto scalpore vedere che, prima di incominciare la propria giornata lavorativa, l’operaio giapponese, insieme a tutti i propri colleghi, ubbidiva agli ordini di un altoparlante e, vicino al proprio posto di lavoro, effettuava alcuni brevi esercizi ginnici e poi, sempre tutti insieme, si cantava l’inno dell’azienda in cui si ringraziava “il bravo padrone” o il suo bravo manager per la gratificazione del lavoro.

Tra i nostri operai, invece, fece molto scalpore il trattamento subito da uno dei vice chimici più bravi e simpatici, alto e atletico, quando fu rimproverato dal suo capo reparto, il Dott. Okada, piccoletto e minuto, che a voce alta e con il dito indice puntato all’altezza del diaframma del malcapitato, lo spinse a piccoli passi e piccoli colpettini fino ad un angolo del reparto dove lui continuava a subire, sull’attenti, i rimproveri ed i colpetti, inchinandosi e ringraziando.

La maggior parte dei tecnici giapponesi, i vice chimici, erano giovani con diploma di laurea e scapoli e, come da programma, sarebbero rimasti a Manfredonia un paio d’anni per poi tornare a casa. Vivevano in gruppi e venivano a lavorare in fabbrica, a volte, anche con una sola macchina per gruppo, per cui, quando uno di loro, per esigenze di servizio, era costretto a trattenersi in fabbrica, tutti gli altri rimanevano e cercavano di aiutarlo a sbrigarsi.

Per quanto riguarda l’inserimento dei giapponesi nella comunità paesana, non ci furono problemi di questo tipo, per il semplice motivo che i giapponesi facevano vita comunitaria tra loro e, rispetto all’ambiente circostante, non avevano altri contatti se non con negozianti o ristoratori.

In verità, ci fu un inizio d’inserimento finché restò a Manfredonia il Dott. Komori, con le sue due figlie adolescenti e la moglie che, in Giappone, era insegnante nelle scuole superiori. Madre e figlie, parteciparono alla sfilata del Carnevale 1966, indossando le loro ricchissime e coloratissime vesti giapponesi, ed ebbero molto successo, ma fu l’unica occasione.

In verità, con la facilità dei bambini nel superare tutte le barriere, le ragazzine giapponesi di Komori avevano contatti con alcune coetanee del grande stabile in cui abitavano, ed ebbi modo di scoprirlo quando, dopo insistenti sollecitazioni, andai a visitare la casa e la famiglia di Komori con la mia fidanzata.

Devo tuttavia confessare che la cosa che m’impressionò maggiormente, a parte l’accoglienza e la cortesia, fu quella di vedere bellamente affilate in mostra, su un lungo mobile basso, tante statuine affiancate, dalla più bassa alla più alta al centro, per poi continuare, dall’altro lato, sempre verso la più bassa: al centro c’era la statua scura di Sant’Antonio da Padova, affiancata dalla riproduzione in gesso del David di Michelangelo e dalla statua d’alabastro dell’Arcangelo Michele di Monte Sant’Angelo, poi i pupazzi del Presepe, con i pastori ed un San Giuseppe e varie altre figure, il tutto in una curiosa commistione di sacro e profano.

Gli italiani.

I diretti corrispondenti dei tecnici giapponesi erano i vice capo italiani, i periti agrari che fungevano anche da capo turno, tutti forestieri e tutti condividevano il generale pregiudizio dei nostri “vicini” conterranei e corregionali: cioè che “il manfredoniano”, in genere, ha poca voglia di lavorare.

In verità, questo pregiudizio è il risultato dell’assunto, questo sì esatto, che al “manfredoniano” piace soprattutto divertirsi, ma non è detto che, sul lavoro, siano tutti “sfaticati”. In pratica, sbagliato l’approccio, continuò in maniera sbagliata la gestione del gruppo di lavoro: qualcuno dei vice capo italiani credeva che il proprio compito fosse solo quello di denunciare il più sfaticato.

I capi reparto italiani organizzarono i gruppi di lavoro degli operai e ne stabilirono la turnazione. Erano tutti già esperti ed avevano già coperto, presso altre realtà industriali, i ruoli loro assegnati; tutti, tranne il più giovane, il Dott. Gilli, appena laureatosi con lode, che era il capo del primo reparto “H2”, quello che dava inizio alla produzione con la fermentazione.

Infatti il tipo di lavorazione era “a ciclo continuo” e “di processo”, come in quasi tutte le industrie chimiche, nel senso che la lavorazione iniziava nel primo reparto e passava quindi al successivo, fino al reparto finale di confezionamento.

La materia prima era immessa in uno dei fermentatori, un serbatoio gigantesco in acciaio inossidabile, e qui era inoculata la “coltura” dei “batteri”, con aria compressa e con qualche sostanza organica che aiutava il batterio a nutrirsi, il tutto sotto stretto controllo e con continui prelievi per analizzarne l’andamento.

La durata della fermentazione era più o meno prevedibile, ma dipendeva da molteplici fattori come la temperatura esterna, la consistenza zuccherina della materia prima e forse da qualcos’altro che non ho mai saputo.

Naturalmente i giapponesi erano esperti in quel tipo di fermentazione, mentre gli italiani erano alle prime armi, così che una volta, agli inizi, accadde che al momento di fermare la fermentazione perché completata, e passare la sostanza al reparto successivo, fossero presenti solo i tecnici giapponesi e non gli italiani che, al loro sopraggiungere al mattino, trovarono tutto già fatto, s’immagini con quanta soddisfazione, e questo creò i primi screzi conclamati fra italiani e giapponesi.

La giustificazione fu che, giunti a quel punto del processo, non c’era la possibilità di aspettare e ritardare le manovre di lavorazione, pena il danneggiamento della sostanza, con il conseguente riversamento in fogna del tutto e notevole perdita finanziaria, oltre alla mancata produzione.

Ma gli italiani rimproveravano ai giapponesi la mancata collaborazione nella programmazione: sapendo più o meno l’ora, si sarebbero fatti trovare, anche in ore notturne. Inoltre tutti capimmo il perché avessero scelto il Dott. Gilli come capo reparto dell’H2, era il più giovane, il meno esperto ed il più mite e educato, non “sgamato” come gli altri che protestarono e puntarono i piedi per farsi rispettare maggiormente.

Con gli screzi tra chimici italiani e giapponesi, si crearono tra gli operai i “partiti” dei favorevoli agli uni, pochi, ed agli italiani, la maggioranza, si figuri con quale risultato per la produzione. Il direttore, l’Ing. Raffetto, cercava di fare da paciere tra le due fazioni spiegando com’entrambi fossero utili ed indispensabili alla fabbrica.

Purtroppo, proprio in questi frangenti avvenne “l’incidente”. Pare che uno dei Periti agrari, un vice capo reparto, usando modi poco urbani, ma solo a voce, sollecitasse uno degli operai ad eseguire un certo compito e questi, anziché provvedervi immediatamente, si attardasse a chiedere un certo formale rispetto, il tutto sotto gli occhi di un “consulente” giapponese che, conoscendo il compito richiesto, esasperato, intervenne agitato afferrando e tirando per un braccio il riluttante operaio, facendolo cadere, o battere, contro qualcosa di metallico, procurandogli una leggera ferita e contusione.

Scoppiò un caso diplomatico internazionale, con implicazioni sindacali e patriottici, naturalmente alimentato e fomentato dai chimici italiani. La Commissione Interna, come all’epoca si chiamava la rappresentanza sindacale interna, chiese al Direttore le spiegazioni e l’allontanamento del “colpevole”, giacché non “sapeva” come si gestisce il personale in Italia.

Si cominciarono a svelare molti altri scontri o diatribe, più o meno ravvicinati, avvenuti prima dell’incidente; si misero nel mirino anche quei Periti agrari che si comportavano da “aguzzini” o spie; si venne a sapere che spesso a sera, dopo cena, molti dei giovani tecnici giapponesi ritornavano in fabbrica quasi ubriachi. Si vennero a sapere anche le motivazioni dell’abbandono del Dott. Cantarella che, da vero signore, quando capì che sarebbe stato un Capo Laboratorio solo a metà, senza polemiche, preferì tornare alla sua Schiaparelli.

La Direzione italiana, nelle persone dell’Ing. Raffetto, dell’Ing. Ciceri e del Direttore Amministrativo, intervenne per pacificare gli animi e riuscirono a far capire agli amici giapponesi che, in Italia, il “superiore” non può usare le mani (e per fortuna che non c’era ancora lo Statuto dei Lavoratori).

Fu concordato però che lo staff giapponese sarebbe stato ridimensionato come numero e che sarebbero stati scelti solo tecnici regolarmente sposati; intanto, dopo qualche giorno di “sospensione”, il chimico colpevole della rivoluzione ritornò in fabbrica, prestando però la sua opera in Laboratorio, prima di tornare in Giappone.

I chimici italiani si ritirarono sull’Aventino, tutti compatti e solidali, con a capo, naturalmente, il Dott. Giavelli. Pensiamo ci sia stata qualche trattativa, ma il risultato, in ogni modo, fu che in poco tempo si licenziarono Giavelli e Giappicucci, subito seguiti dall’Ing. Ciceri e questo, in ogni caso, fu una notevole perdita per la fabbrica, considerato la competenza delle persone.

Rimase il Dott. Fontana, non per accettazione della propria posizione dimezzata, ma per autentici e gravi motivi di famiglia che gli impedivano di trasferirsi. Rimase il Dott. Gilli che sembrò in un certo senso accettare la propria posizione dimezzata di capo del reparto H2, dove imperversava il piccoletto suo omologo giapponese, il Dr. Okada, destinato in breve tempo a raccogliere il frutto della sua vittoria diventando il capo dello staff tecnico giapponese, sostituendo prima il Dott. Komori, il capo della produzione, e poi l’Ing. Saito, capo dell’intero staff giapponese, tornati in Giappone. Anche il Dr. Okada ritornò in Italia nel 1976.

Dopo qualche mese, Gilli si licenziò per andare in Brasile, raggiungendo laggiù il Dott. Giavelli. Per il proprio addio, volle lasciare un “regalo” al Dott. Okada, ma fu una caduta di stile per quel simpatico e prestante giovanotto.

Il Dott. Fontana fu “distaccato” presso l’Istituto di Ricerche Breda di Bari. Qui continuò, ed approfondì, una sua personale ricerca sui sistemi di depurazione delle acque reflue, sfruttando anche quanto acquisito nel nostro stabilimento e, dopo qualche mese, tornò nella sua Bologna e mise su, prima uno Studio di consulenza industriale, proprio sui sistemi di smaltimento e depurazione delle acque, poi brevettando un vero impianto tecnico.

Gli effetti “dell’incidente”, con tutto quel che seguì, si sentirono e perdurarono nel tempo e, secondo me, cambiò poi radicalmente tutto l’atteggiamento dei giapponesi nei confronti degli italiani. Se qualcuno dei nostri “ospiti” poteva aver avuto l’idea di integrarsi maggiormente nell’ambiente cittadino o in quello di lavoro, dopo “l’incidente” dovette cambiare idea e preferì restare al suo posto.

Cap. IV – L’ESTERNO

Il Paese.

Manfredonia, dunque, fu preferita dai giapponesi proprio perché un deserto vergine, industrialmente parlando, fuori da ogni altro distretto. Il Dr. Fukazawa mi raccontò che il posto gli era piaciuto dal primo momento, gli era piaciuto il paese e gli abitanti, e gli era piaciuta l’Amministrazione Comunale.

Era allora Sindaco il Dott. Nicola Ferrara, democristiano, che nulla aveva fatto per farli arrivare, ma fece molto per farli restare. Per funzionare, una qualsiasi industria ha bisogno, oltre che del suolo, dell’energia elettrica e d’acqua, molta acqua, ma soprattutto, all’epoca, di molte, moltissime licenze ed autorizzazioni, rilasciate da tantissime Autorità, ed ognuna “istruiva” un pratica “a hoc” che aveva bisogno di stimolo e controspinte per avanzare.

Per fortuna, di tutte queste incombenze se n’occupò il collega Dott. Nevio Russo, bravissimo e competente, di Foggia e fratello dell’On. Vincenzo Russo. Con la sua competenza e bravura, subito dopo aver completato tutte le pratiche per il nostro Stabilimento di Manfredonia, fu chiamato dall’IRI per realizzare lo Stabilimento Alfasud a Pomigliano d’Arco.

Nevio Russo si trasferì all’IRI per conto proprio, ma, dopo pochi anni, ci fu un vero e proprio esodo di massa dall’EFIM all’IRI, a seguito della nomina dell’Avv. Sette a Presidente appunto dell’IRI, che volle con sé anche il dott. Zurzolo, il quale, prima come Direttore, divenne poi Presidente dell’IRI a sua volta.

Nelle sue incombenze Russo era affiancato ed aiutato dal nostro Direttore Amministrativo, il Dott. Calabrò, proveniente dalla Manetti & Roberts di Firenze, ex Ufficiale di Marina che aveva effettuato il proprio servizio militare proprio presso il gran palazzo della Marina a Roma, sul Lungotevere.

Ed infatti, destò molta meraviglia, tra gli impiegati e gli Ufficiali della Capitaneria di Porto di Manfredonia, l’immediatezza con cui da Roma, dal Ministero, arrivò l’autorizzazione all’installazione del deposito costiero sul Porto, tanto che, per tutto il periodo in cui rimase in servizio lo stesso funzionario, tutti gli anni, quando andavo a rinnovare la concessione demaniale, mi accoglieva sempre con molta cordialità e ossequio.

Per parte sua, il Sindaco Ferrara impostò molto bene la pratica dell’insediamento della prima industria di Manfredonia, ottenendo subito le delibere e le approvazioni del Consiglio Comunale e tutta la nostra Società, Amministratori e Direttori, erano entusiasti dell’operato del nostro Sindaco che aveva reso, con la sua opera, molto breve il periodo morto tra la progettazione e l’inizio dei lavori.

La sua alzata di genio, infine, fu quella di far anticipare dalla Società Ajinomoto-INSUD le spese per la linea di alta tensione ENEL, a carico del Comune, impegnando con contratto lo stesso Comune di Manfredonia alla restituzione della spesa, non appena ricevuto il finanziamento statale.

Per quanto riguarda l’acqua per uso industriale, fu attinta dalle vasche di colmata del Consorzio di Bonifica, ex Lago Salso, e da una sorgente di Siponto.

Ricordo che, stando a Roma, ebbi modo di studiare una grande carta geografica della piana del Tavoliere e del Gargano, con l’indicazione di tutte le fonti e le acque di superficie e sotterranee, perfino con l’indicazione delle zone più o meno sismiche e le curve dell’altitudine sul livello del mare, v’erano poi evidenziate tutte le correnti marine del Golfo di Manfredonia e le profondità del mare.

Il disegnatore anziano che la custodiva, invalido di guerra, ma ex paracadutista della Folgore ed ex agente segreto militare durante la guerra, mi fece notare che si trattava di una carta militare, non facilmente reperibile, e che non bisognava mostrarla troppo in giro.

Quando arrivarono i mobili ed i documenti contabili da Roma a Manfredonia, notai subito il rotolo della carta geografica tra il fascio di disegni arrotolati trasportati da uno dei facchini, e la tirai subito via, nascondendola in un posto sicuro.

Dopo qualche tempo, fui chiamato dal Direttore nel suo ufficio, dove si intratteneva con un gruppo di visitatori estranei, e mi chiese se sapessi dove fosse andata a finire quella carta geografica che stava a Roma, ed io gliela tirai giù dal suo armadio e la mostrammo ai visitatori.

Per curiosità restai presente alla riunione e appresi che erano dei tecnici della B.P.& D. di Vicenza, che dovevano progettare un grande stabilimento petrolchimico nella zona e, vista la presenza d’acqua nelle vasche di colmata sulla litoranea per Zapponeta, dedussero che il posto migliore sarebbe stato appunto nella zona delle vasche (già Lago Salso), ma questa è un’altra storia.

La presenza a Manfredonia di una vera industria, la prima, e per i primi anni l’unica, non fu percepita nella sua essenza dagli abitanti indigeni, pur essendo veramente un vero gioiello della tecnica; i muratori che ci lavoravano, mi ricordo, non capivano la necessità di creare una “gabbia” in cemento armato “legato” tra le sue colonne delle fondamenta, anche nella parte interrata, sotto il piano di calpestio, tecnica imposta ora per legge per il rispetto delle norme antisismiche, ma questo accadeva già nel 1965.

In fondo, la realtà industriale, faceva parte di una cultura completamente avulsa dal territorio. Prendiamo ad esempio le banche locali, i rapporti con le quali vissi direttamente e personalmente.

C’erano allora in paese una banca a livello nazionale, il Banco di Napoli, istituto di diritto pubblico pachidermico e clientelare, che, in sede locale, rivolgeva le sue attenzioni al credito agricolo e fondiario, oltre che al servizio di Tesoreria con gli enti locali; l’altra era una banca locale abbastanza importante, la Cassa di Risparmio di Puglia, che si rivolgeva al commercio, all’artigianato e, quindi, allo sconto ed incasso di cambiali e tratte.

La nostra Società, almeno agli inizi, aveva pochi soldi da depositare nei conti bancari, ma chiedeva servizi e, quindi, dava lavoro di ogni tipo agli sportelli, naturalmente ben remunerati.

Il nostro prodotto era venduto nell’Italia del Nord e, per la maggior parte, all’estero, e nessuna delle due banche, almeno nelle figure dei funzionari responsabili, mostrava di essere interessata in queste operazioni.

A quei tempi, versare in conto per l’incasso un assegno bancario fuori piazza, era un’operazione che qualsiasi banca perfezionava in oltre un mese, se andava bene, e qualsiasi funzionario, per accogliere il servizio, doveva fornirsi di “carte” e garanzie sulla solvibilità del traente, questo anche se i nostri clienti erano la Star e la Knorr, con un assegno il cui importo, all’epoca, rappresentava una cifra pari al costo di due appartamenti.

Le nostre ricevute bancarie all’incasso, all’epoca poco conosciute in zona, erano onorate più e meglio di una cambiale da una qualsiasi delle ditte del nord nostra cliente e debitrice, ma per i funzionari del paese erano più o meno “carta straccia”, figurarsi se le accettavano per lo sconto.

Emettere un Modello A/Export per la vendita di merce ad un cliente estero, era un’operazione nuova e sconosciuta per parecchi funzionari di banca, per cui, per essere perfezionata, nella migliore delle ipotesi, richiedeva almeno dieci giorni.

Ogni operazione di vendita all’estero poteva essere finanziata con una “anticipazione all’esportazione”, a tasso molto agevolato, per la quale non c’era bisogno di “istruire” una pratica di scoperto di conto, secondo il sistema classico del fido, ma che, essendo un’operazione detta di “credito documentario”, era come una medaglia di merito che la banca si accreditava nei confronti della Banca d’Italia e dell’ICE: ma solo nominarla metteva in ambasce il funzionario di Manfredonia. Tant’è che fummo, prima costretti, e poi subito blanditi dalle principali banche di Foggia e di Bari.

La concorrenza tra le banche veniva fatta con l’offerta di tassi, attivi per i clienti, invitanti ed in nero, cioè in contanti e fuori dal conto: c’era un tasso ufficiale, conteggiato negli estratti conto bancari, ed un “di più” a parte, versato in contanti annualmente.

Era una pratica diffusa e generale, applicata, naturalmente, nei confronti dei “migliori” clienti, almeno fino all’introduzione della riforma tributaria dal 1974: prima, gli interessi sarebbero stati assoggettati al pagamento dell’Imposta Complementare (l’IRPEF di allora), ma non c’era un controllo incrociato tra quanto dichiarato dalle banche e quanto denunciato dal ricevente, per cui era una scelta affidata al “buon cuore” del contribuente.

La nostra Società, come tutte, ma proprio tutte le altre società italiane dell’epoca, utilizzò gli interessi attivi per crearsi i cosiddetti “fondi neri”, utili per “mazzette” e bustarelle.

Insomma, almeno agli inizi, noi eravamo “ottimi” clienti per le banche baresi e foggiane, discreti clienti per Manfredonia. E noi giovani impiegati imparammo tanto dal Dott. Roberto Italia, nel breve periodo che rimase presso di noi, prima e dopo l’epatite virale. Lui “negoziava” con le banche, nel senso che “dettava”, le regole applicabili ai nostri conti correnti, per cui l’assegno della Star ci veniva accreditato con valuta di tre giorni lavorativi; il modello A/Export, già firmato dalla Banca, era nel nostro cassetto e veniva da noi compilato non appena completato il carico del TIR tedesco o olandese con il nostro prodotto e, in certi giorni, di TIR stranieri potevano esserci anche più di uno.

Non c’era niente di illegale, anzi era una pratica comunemente applicata in tutta l’Europa, per non far attendere il camionista, per non far andare avanti ed indietro il funzionario di banca o il Direttore: la firma della Banca serviva a garantire che l’esportazione fosse effettiva e reale, non fasulla, e che il prezzo pattuito fosse giusto e remunerativo, e quest’ultimo controllo era chiaramente al di fuori della portata di un funzionario di banca.

Solo dopo qualche anno, quando la Banca d’Italia incominciò a diffondere il proprio tabulato sui movimenti bancari per Provincia o per zona, vedemmo arrivare i funzionari delle due banche locali, accompagnati dai direttori responsabili a livello foggiano, a “mendicare” maggior lavoro presso i loro sportelli, ma era già cambiata l’epoca.

Molte incomprensioni le avemmo anche con gli autotrasportatori locali. La maggior parte del nostro prodotto, come detto prima, veniva venduta all’estero, nel nord Europa e viaggiava con i TIR stranieri che, venuti in Italia a scaricare, oppure che tornavano scarichi dalla Grecia o dalla Turchia, e se ne andavano al nord con il nostro prodotto, con spese a carico del destinatario, stesso percorso per i camion Star e Knorr.

Ma capitava abbastanza spesso di aver bisogno di noleggiare diversi autotreni per il nord Italia, ad esempio per Trieste, dove si completava il carico di un treno che, partendo da Trieste, proseguiva il suo viaggio verso l’est europeo.

Non ci poteva quindi essere nessun contratto di “esclusiva” con i trasportatori locali, ma i contatti erano abbastanza frequenti, anche perché molte autocisterne locali, provenienti dagli stabilimenti del centro nord, venivano utilizzate dai nostri fornitori per venire a scaricare presso il nostro stabilimento. I rapporti, comunque, iniziarono con reciproca soddisfazione.

Quando il lavoro incominciò a diventare più interessante, i nostri autotrasportatori, consorziati tra loro, cominciarono ad aumentare le loro pretese, mentre il nostro ufficio acquisti cominciò a chiedere sconti.

Forse ci fu una certa supponenza da parte dei trasportatori locali che tentarono di “forzare” le decisioni dei nostri responsabili, resta il fatto che i rapporti cessarono quasi del tutto, ricorrendo a quelle agenzie di intermediazione che assicuravano il “carico di rientro”, a prezzi molto modici, ai “padroncini” che dal nord, venivano a scaricare al sud.

Uno dei miei collaboratori, addetto all’ufficio spedizioni, che aveva quindi continui contatti con gli autotrasportatori, ma che comunque era l’ultimo anello della catena decisionale, una mattina trovò le quattro gomme della sua auto tagliate con il coltello.

Simile approccio supponente si ebbe con i piccoli fornitori locali, artigiani e commercianti: sembrava quasi che tutti fossero convinti che “dovevamo” pagare una specie di differenza in più per “il privilegio” di essere “ospitati” a Manfredonia.

Il nostro Ufficio Acquisti aveva i listini prezzi di tutto il materiale che ci serviva, quando per piccole quantità ci si rivolgeva ai fornitori locali, si veniva a scoprire che questi applicavano ricarichi eccessivi ed ingiustificati.

Gli artigiani presentavano preventivi capotici e forfettari. Quando l’Ufficio Acquisti li chiamava e discuteva stendendo gli stessi preventivi in maniera analitica e precisa, si scontravano poi sul margine di guadagno da applicare.

Come esponente della “fauna” locale, cercavo di far capire ai miei compaesani che eravamo in un’economia di mercato, che v’erano commercianti e artigiani in zone limitrofe che si accontentavano di guadagnare meno, ma non tutti lo capivano.

I “concorrenti”

La materia prima per il glutammato era la melassa di barbabietola, cioè la prima lavorazione dello zuccherificio, ed era quindi prodotta dai tre grandi gruppi industriali, nostri grandi nemici che, non solo ce la rifiutavano, ma ostacolavano tutti i nostri contatti con gli altri produttori europei, perché, come ebbi modo di verificare, lo spionaggio industriale non era prerogativa solo dei nostri amici giapponesi, ma di tutti i grandi gruppi industriali.

Il Mercato Comune Europeo “premiava” gli esportatori di materie prime e, quindi, anche delle sostanze zuccherine, per cui, per riscuotere quali produttori ed esportatori tali “premi”, i nostri concorrenti preferivano “esportare” il melasso di barbabietola, anziché venderlo in Italia.

C’era in Europa una specie di Associazione internazionale che riuniva tutti i produttori di zucchero e materiale accessorio, allo scopo dichiarato di favorire l’incontro tra la “domanda e l’offerta”, in verità era un vero e proprio “cartello” che decideva il prezzo delle materie prime del settore e controllava che gli associati applicassero il prezzo concordato.

Annualmente, al momento opportuno per la “campagna” di vendita, i produttori si riunivano in una sede europea predefinita, come Montecarlo nel Principato di Monaco, oppure Rotterdam, o ancora Zurigo, e qui si svolgevano “gli incontri” tra (i pochi) venditori e (i pochi) compratori con il sistema delle “aste aperte”, vale a dire che, tra divieti ed esclusioni, il venditore poteva scegliere il compratore a proprio gradimento, magari rifiutando il cliente con la cravatta a righe o gli occhi a mandorla, subito imitato dagli altri colleghi produttori.

I giapponesi, dopo la prima volta in cui furono emarginati, rimanendo a mani vuote, trovarono subito il sistema per aggirare l’ostacolo dei divieti. L’acquisto del melasso per la nostra fabbrica veniva allora effettuato tramite un affarista greco, un finanziere che, nel suo paese, a Igoumenitsa, era titolare di una concessione per la produzione di zucchero ma che, secondo me, non aveva neanche un macinino per poterlo produrre.

Lui acquistava a nome proprio, ma non soltanto per conto di nostri giapponesi, anche per altri. Doveva essere una persona nota nell’ambiente, tant’è che i nostri amici giapponesi, sempre molto prudenti prima di fidarsi, gli concessero ampio credito e gli mettevano a disposizione anticipatamente le somme in dollari per partecipare alle aste.

Anche lui si fidava dei giapponesi, sebbene poi, puntualmente, nell’imminenza della gara, ci telefonava per chiedere conferma dell’avvenuta apertura di credito, dell’importo, della banca emittente e quella ricevente.

Lui si aggiudicava i lotti di materia prima e, solo dopo l’acquisto, apprendeva il paese d’origine di quanto acquistato. Per cui si verificava, e si verificò, il caso che dal porto di Ravenna partì una nave greca carica di melasso. Durante la navigazione in Adriatico i documenti viaggiarono verso Marsiglia dove, in Dogana, la merce venne “nazionalizzata” come francese e decurtata dal complessivo quantitativo previsto nella originaria licenza di importazione.

All’arrivo nel porto greco di Igoumenitsa, la nave trovò la documentazione in regola per “nazionalizzare” in Grecia la stessa merce di provenienza francese, che però, subito dopo, proseguì, senza scaricare, per il porto di Manfredonia dove venne definitivamente “nazionalizzata” e scaricata nel nostro deposito costiero.

Il Mercato Europeo “premiava” quindi il produttore italiano, l’esportatore francese e quello greco, tutti per la stessa merce mai uscita dall’Adriatico.

Una volta si verificò che, mentre la “nostra” nave stava scaricando il melasso nei serbatoi sul porto di Manfredonia, al largo, in rada, si trovasse un’altra nave che attendeva il proprio turno per “caricare” il melasso di barbabietola prodotto da uno dei tanti zuccherifici della provincia di Foggia e destinato chissà dove.

Naturalmente i nostri concorrenti, dopo i primi casi, cercarono di creare altri ostacoli, ma non potevano lottare contro l’ineffabile affarista greco che, altre volte, si era prestato anche al loro servizio. All’occorrenza, in certi casi, il nostro amico greco si serviva di “agenti terzi” di facciata, per compensare i quali ci chiedeva, in aggiunta all’apercredito, una congrua “mazzetta” di dollari in contanti: e qui tornavano molto utili i nostri “fondi neri”.

Potrebbe a questo punto sorgere spontanea la domanda: – «Ma perché non acquistare direttamente il melasso presso i produttori foggiani?» – la domanda è facile, la risposta meno, a parte una caratteristica tecnica del melasso foggiano che richiedeva una ulteriore lavorazione che non sono in grado di spiegare.

I proprietari degli zuccherifici foggiani erano sempre gli stessi a livello nazionale e, al principio, ci fornirono anche piccoli quantitativi di melasso, ma il “nostro” glutammato tagliava le gambe al mercato del “loro” prodotto e, finché il mercato tirava e c’era lavoro per tutti, tolleravano la nostra presenza, ma una volta andato a regime lo stabilimento, la produzione totale annua creava un surplus di offerta a livello europeo e si creò una vera e propria guerra di resistenza.

Eppure il core business degli zuccherifici non era il glutammato, però teniamo presente che, per lo zucchero, avevano una lavorazione fortemente stagionale, mentre il glutammato poteva tenere impegnate le maestranze a tempo indeterminato anche nei periodi morti; che la materia prima non dovevano acquistarla ma l’avevano in casa; che insomma il ricavo del glutammato era tutto e solo “frutto”.

Poi, io che sono abituato a pensare male, ritengo che, mentre per lo zucchero, tutta la filiera produttiva era controllata dall’Intendenza di Finanza per assoggettarlo ai dazi e gabelle previste, per il glutammato la Finanza verificava solo la materia di partenza impiegata per la produzione, mentre, il prodotto finito non era sostanza zuccherina, quindi non era soggetto a dazi, e si poteva vendere anche senza fattura e senza IVA.

Non vorrei sembrare un credulone, ma mi convinsi che, dopo quell’unico caso di due navi presenti in contemporanea nel porto di Manfredonia per il melasso, proprio perché a quel punto si poteva giustificare l’interessamento della Magistratura, dopo qualche tempo acconsentirono a venderci il melasso degli zuccherifici foggiani e molisani.

La Burocrazia

Come Società a partecipazione statale, la nostra era quanto mai rispettosa delle leggi e regolamenti, anche perché non c’era nessun “padrone” che sollecitasse diversamente, e gli stessi giapponesi, per loro mentalità, erano quanto mai rispettosi delle norme fiscali e tributarie.

Nei nostri contatti con tutti gli impiegati pubblici, era quasi diventata una canzone dover ricordare che non avevamo interesse a trasgredire, lottando per superare la convinzione del Funzionario Pubblico per il quale “tutti sono evasori, fino a prova contraria”. Per fortuna, c’erano molti funzionari intelligenti che capivano la nostra filosofia di approccio alle leggi e la condividevano, per cui, da controllori, erano quanto mai collaborativi.

Fin dalla costruzione dello stabilimento, per esempio, per la presenza in fabbrica di un deposito di “destrosio”, materia zuccherina, eravamo assoggettati, per il prelievo e il carico, della presenza di un Funzionario dell’Intendenza di Finanza di Foggia, che, con l’assistenza di un graduato della Guardia di Finanza, per legge, dovevano sovrintendere a tutti i movimenti della stessa sostanza e controllare che ne avvenisse la registrazione, a mano, su di un grosso registro.

In breve, quando capì che nessuno aveva in mente di carpire il destrosio per fare le torte o altro, rinunciò all’assistenza del finanziere e divenne lui stesso l’impiegato addetto alla registrazione ed il primo a raccomandare la nostra “onestà” ai propri colleghi.

Infatti, per la dichiarazione in dogana dei TIR destinati all’estero, sarebbe stato necessario che gli stessi TIR, dopo il carico, venissero accompagnati in Dogana, al centro del paese, qui controllati e “piombati”, ricevessero le “carte” per la frontiera e poi tornassero nella nostra fabbrica per ritirare gli altri documenti bancari e contabili per il destinatario.

Con la raccomandazione del nostro Funzionario, i documenti venivano inviati in dogana, vistati e firmati, e tornavano, insieme ad un Agente Finanziere, nella nostra fabbrica dove lo stesso finanziere controllava e piombava il carico e poi veniva riaccompagnato in Dogana, mentre il TIR ripartiva direttamente per la sua destinazione.

Questo era possibile perché i funzionari della dogana si erano convinti che potevano fidarsi sulla esattezza delle nostre carte, cioè che la quantità descritta era esatta, che il prezzo era quello vero e che non veniva caricato nessun altro prodotto oltre a quello scritto e che, quindi, ad un eventuale controllo alla frontiera sarebbe filato tutto liscio e regolare.

Secondo i principi generali, risaputi ma non espressi, per la convivenza e la collaborazione con gli Uffici statali e gli organi di controllo, essendo la nostra una Società con una contabilità trasparente, anche la cosiddetta “corruzione” era trasparente: il “panettone” natalizio ci era regolarmente fatturato con l’indicazione di nome, cognome e indirizzo del destinatario, per cui molti Funzionari ci “pregarono” di essere esentati dal regalo.

Alla Dogana, invece, non essendo il nostro un prodotto di largo e comune consumo, era destinato un “pacco” contenente carta per scrivere, cancelleria e materiale vario per ufficio, che sopperiva alle manchevolezze della fornitura statale. Ai Carabinieri fu donata l’insegna luminosa e messo a disposizione il nostro fotocopiatore.

Le Relazioni Industriali

Mi piace ricordare che, per la maggior parte, gli operai dello Stabilimento furono assunti in pieno periodo di campagna elettorale per le elezioni amministrative locali, che confermarono Sindaco il democristiano Nicola Ferrara, con un vasto consenso per tutto il Partito.

Dopo qualche mese, ci furono in fabbrica le elezioni per la nomina della Commissione Interna ed ottenne quasi un plebiscito la C.G.I.L. Non sono settario, è che anche io, personalmente ed apertamente, m’impegnai per la campagna elettorale a favore della D.C. avvalendomi della collaborazione di freschi dipendenti della fabbrica, gli stessi che, una volta assunti, non solo entrarono nella CGIL, e fin qui non ci vedo niente di male, ma fondarono poi a Manfredonia la prima Sezione del PSIup, l’estrema sinistra anche rispetto al P.C.I., con sulla parete di fondo una grande fotografia del “Che” Guevara, con sigaro, basco e stella rossa.

Non essendoci, naturalmente, passate esperienze industriali nella zona, tutto il ruolo del Sindacato in fabbrica dovette essere inventato, e non ci furono troppi problemi se non fosse poi sopraggiunto il famoso ’68, “rivoluzionario” per tutta l’Europa, l’autunno “caldo” del 1969 per noi in Italia.

Ricordiamoci che, all’inizio, la quasi totalità degli operai erano inquadrati nell’ultimo livello sindacale e retributivo. Avviatasi la produzione, non si poteva tenere il personale a quel livello, niente più lo giustificava.

Cominciarono le rivendicazioni, le dispute e gli scioperi, con i giapponesi, ma anche la parte dirigenziale italiana, restii a mollare e riconoscere avanzamenti di categoria e di livello a quelli che “prelevati dai campi o dalla strada, li abbiamo fatti diventare operai dell’industria”. Non mi piacque questa frase, ma divenne il motivo dominante delle trattative sindacali, dirette, al principio, dal Direttore Raffetto, ma la frase non era la sua.

Quando, più o meno, lo stabilimento entrò nel pieno della sua fase produttiva, gli scioperi provocavano danni alla economia di fabbrica e, per fortuna, cambiò anche lo staff dirigenziale. Raffetto venne affiancato e poi, spesso, addirittura sostituito dal Direttore Amministrativo, quel Dott. Italia che ci insegnò tanto, anche nel modo di trattare e “rispettare” il lavoro degli altri e degli operai.

Con estenuanti trattative, ogni tanto, venivano concessi gli avanzamenti di categoria per dei gruppi di operai. Per la loro mentalità, i giapponesi erano programmatori e calcolatori: parlando di avanzamenti, volevano prima conoscere quanto costava alla Società e quanto sarebbe stata la spesa complessiva per le concessioni da fare. E questo io lo so bene perché, all’epoca, ero appunto l’addetto al calcolo delle paghe e dei costi del personale.

In ogni caso, passò la stagione delle rivendicazioni, passò il 1968 e il 1969, rimasero gli scioperi a carattere nazionale e quelli per il rinnovo del contratto di lavoro. Restò comunque l’idea, nella cittadinanza, che nella nostra fabbrica non si facesse altro che scioperare, così come si radicò il convincimento che i nostri operai non lavorassero mai, o lavorassero poco, che in fabbrica, anche durante l’orario di lavoro, si proiettassero sui reparti films pornografici. Erano tutte favole o, come diremmo oggi, leggende metropolitane, che non è escluso fossero state lanciate dagli stessi dipendenti per scherzo o per dispetto.

Il processo produttivo era a ciclo continuo per 48 settimane all’anno e per ventiquattro ore giornaliere. Tutti gli addetti ai reparti produttivi erano divisi in quattro gruppi di cui uno, ogni giorno, era in riposo mentre gli altri tre coprivano e completavano la giornata lavorativa con turni che andavano dalle 6 alle 14, dalle 14 alle 22 e dalle 22 alle sei del mattino dopo.

Tra i due turni diurni avevano una solo giornata di riposo, tra gli altri, erano due i giorni di riposo. Ogni turno lavorava per cinque giorni consecutivi. In pratica, smontando alle sei del lunedì mattina, rientrava in fabbrica alle ore 14 del mercoledì successivo; smontando alle 22 del giovedì, rientrava alle 6 del sabato; quando terminava i cinque giorni lavorativi alle 14 del venerdì, rientrava alle ore 22 del lunedì.

Con il tempo, i gruppi si consolidarono rimanendo sempre gli stessi, anche se divisi tra reparti di produzione e servizi generali e questa fu una precisa scelta dei tecnici giapponesi, mentre i chimici italiani, pare secondo il comune pensiero, ritenevano che i gruppi dovessero essere mischiati spesso, per evitare che si creassero tra i componenti contrasti e attriti o, peggio, si creassero consorterie tramanti a danno dell’impianto.

Con la fabbrica distante dal paese cinque chilometri, anche se era stato messo a disposizione il mezzo pubblico, si crearono piccoli gruppi che, a turno o condividendo la spesa, preferivano arrivare in fabbrica in auto. Tra i gruppi si crearono nuove amicizie o si consolidarono le vecchie. Si crearono gruppi che, nei turni di riposo, si sfidavano in partite di calcio, organizzavano gite collettive, riunioni conviviali e simili.

Naturalmente, quando questi gruppi erano in turno di riposo, specie al mattino, rimanevano in comitiva o si incontravano in locali pubblici. Chi li vedeva insieme, si faceva l’idea che “questi non lavorano mai!” ma non li vedevano quando erano sui reparti in servizio, di giorno, di notte, di domenica, nei giorni festivi, a Natale, a Capodanno e in tutte le altre feste.

La programmazione rigida dei turni faceva in modo che, lo stesso lavoratore, potesse calcolare e prevedere con anticipo il turno che gli sarebbe capitato a Natale, fra sei mesi, all’anniversario di nozze, al compleanno del figlio o della moglie e potersi organizzare di conseguenza.

L’organizzazione e la rigidità nei turni e nei gruppi, alla luce della riscoperta socializzazione, potrebbe sembrare un piccolo successo sotto il profilo civile e educativo, invece era un grande successo per il bene della produttività in fabbrica, voluto e attuato dal personale giapponese. Infatti, col tempo, nacque tra i gruppi una specie di competitività, una gara per la produttività, anche se questa non si poteva calcolare in termini di quantità prodotta, ma solo ed esclusivamente in termini di assenza o diminuzione di momenti critici nel ciclo produttivo.

Se uno del gruppo si assentava, veniva sostituito dall’omologo del gruppo in turno di riposo; se l’assenza si prolungava per diversi giorni, venivano richiamati tutti coloro in grado di sostituirlo, sempre durante il proprio turno di riposo.

Si creava comunque uno scompenso sia nel gruppo ricevente che nei vari gruppi che “prestavano” il sostituto, perché i due giorni di riposo non erano “un lusso”, ma veramente necessari per recuperare tra un turno e l’altro. Se l’assenza era veramente giustificata e occasionale, tutti si prestavano, volenti o nolenti, a sostenere lo straordinario perché, prima o poi, poteva capitare anche al sostituto di dover essere sostituito.

Provate un po’ a pensare se l’assenza fosse stata pretestuosa: tra le tante persone “scomodate”, c’era sempre qualcuno che, quanto meno, mugugnava o se ne lamentava, e, molto spesso, il sostituto chiamato in servizio non si faceva trovare in casa, non si presentava o, a sua volta, si metteva in malattia: era per noi la denuncia che la malattia del primo era falsa o pretestuosa.

Bastava attendere la seconda o la terza assenza, e arrivava la richiesta ufficiale di “spostare” dal gruppo l’assente abituale, fatta dal Capo Turno a nome di tutti i compagni, appoggiati dal rappresentante sindacale interno. Il recidivo veniva rimosso dal turno e diventava “giornaliero” tra i “servizi generici”, con orario dalle otto alle diciassette, perdendo in busta paga, le relative indennità per turno, lavoro notturno, festivo ecc.

La “mela marcia” veniva rimossa dalle buone: un vero successo!

Questo sistema, però, costringeva a recarsi in fabbrica anche con la febbre? Perché no! Con il gruppo unito, se la persona era notoriamente uno che non dava problemi al gruppo, se un giorno non si sentiva bene, specie di notte quando erano assenti i Capi reparto e restavano solo i Capi Turno, poteva chiedere di essere lasciato libero da impegni pressanti e, almeno per un paio d’ore, se ne restava su di una panca a riposare, mentre gli altri compagni coprivano la sua posizione.

Del resto il ciclo produttivo aveva una durata più o meno fissa per ciascun reparto di produzione ed era fatto in modo che, nella maggior parte della propria giornata lavorativa, veniva richiesta un’attenzione vigile alla strumentazione e pochi interventi diretti.

Di casi del genere, cioè di spostamenti dai reparti chiesti dal gruppo, ce ne furono parecchi, penso comunque meno di una diecina, ma nel gruppo dei “servizi generici” vennero inquadrati anche coloro che, provenienti da altri servizi, non avevano molta voglia di lavorare e che, comunque, assenti o presenti a mezzo servizio, non potevano dar fastidio agli altri e alla lavorazione ma, bene o male, svolgevano un servizio che altrimenti sarebbe stato appaltato a terzi, e licenziarli non era consigliabile, perché il Sindacato li avrebbe difesi, perché sarebbe iniziata una lunga vertenza di lavoro e, già all’epoca, i Giudici del Lavoro davano sempre ragione al “povero” lavoratore.

Quando qualcuno esterno mi diceva che i dipendenti della nostra Società erano “tutti” fannulloni e scansafatiche, io li invitavo a farmi il nome o, se per omertà tacevano, li citavo io, uno ad uno, facendo appunto l’elenco degli addetti ai servizi generici: – «Ho dimenticato qualcuno? Ne ho contato una diecina! Ma ne lavorano più di duecentotrenta. Sono sempre e solo gli stessi! Come si può dire che sono “tutti” fannulloni?» –

Con il tempo, gli operai diventarono più bravi dei chimici a prevedere la durata del ciclo produttivo da loro stessi seguito e controllato, per cui erano in grado di prevedere i cosiddetti “tempi morti” nei quali potevano anche “distrarsi”, magari facendo una partita a carte, o mangiare “la parmigiana” portata in fabbrica dal collega, la torta del compleanno del figlio, e così via: l’importante era che non si creassero scompensi nel ciclo produttivo!

La Direzione, i Capi Reparto, noi dell’Ufficio del personale, sapevamo sempre tutto e tutti tolleravano questo tipo di andazzo, proprio perché, comunque, non si creava alcun inconveniente nella produzione.

Dirò di più, nella maggior parte dei casi, noi dell’Ufficio del personale, venivamo informati preventivamente delle “festicciole” programmate, ciò perché, all’ingresso ed all’uscita della fabbrica, c’era il “sorteggiatore”, il campanello che squillava a sorte per la perquisizione dell’operaio prescelto, e noi si avvertiva il guardiano di turno di tutto quello che il tale operaio avrebbe portato in fabbrica, ma non era autorizzazione, solo un “invito” a chiudere un occhio.

Come, per esempio, si faceva in occasione dei campionati mondiali e gli europei di calcio trasmessi dalla televisione: consentire l’ingresso in fabbrica dell’apparecchio televisivo, evitava il dover fronteggiare le numerose assenze, e spesso ero lo stesso Capo reparto, italiano o giapponese, che assisteva agli incontri insieme ai suoi operai.

Questo potrebbe sembrare “accondiscendenza passiva” o, peggio complicità o paternalismo. No: questo ci consentiva di conoscere tutto quello che avveniva in fabbrica, ma soprattutto ci permetteva di “concedere” favori apparentemente gratuiti, ma all’occorrenza, nei momenti critici, sapevamo a chi rivolgerci per chiedere notizie, per dare “consigli” e suggerimenti.

Con il tempo, quando le posizioni chiave della Società furono accentrate nelle mani dei “quadri” locali, eravamo in grado di “affiancare” la Commissione Interna, senza strafare o dare ordini, semplicemente con il colloquio con i “capi”, lasciando “cadere” là i nostri pareri, consigli o suggerimenti.

Qualche volta, uno di questi rappresentanti si metteva in posizione polemica nei confronti della Direzione e non “recepiva” i nostri consigli.

Se lo scontro si faceva particolarmente burrascoso, se i rapporti si fossero ormai compromessi irrimediabilmente, ricorrevamo alla squalifica completa della sua carriera di sindacalista: bastava dargli un avanzamento di livello, oppure assumere uno dei suoi fratelli o famigliari stretti, che perdeva ogni credibilità agli occhi dei suoi compagni e mordente nei confronti della Direzione.

Naturalmente c’era anche qualcuno che, pur andando diritto per la sua strada senza “ascoltare” i nostri consigli, per intelligenza, onestà e rettitudine, era rispettato da tutti, anche dalla Direzione, e uno di questi, Pasquale Lauriola, diventò anche Segretario Provinciale della Federchimici CISL.

Capitava pure, ogni tanto, che qualcuno dei sindacalisti più intelligenti venisse messo in discussione dalla “base” o da qualcuno che voleva sostituirlo, allora eravamo noi stessi a “consigliargli” di farsi momentaneamente da parte per far posto al nuovo avanzante, il quale, naturalmente, non avrebbe mai ricevuto i nostri consigli o i nostri suggerimenti.

Purtroppo, proprio in un frangente simile, mentre in Commissione Interna era stato inserito un capo, anche politico, emergente ma di scarso peso specifico ed inaffidabile, prima di poterlo mettere in discussione, capitarono le ultime fasi decisive della vita della nostra fabbrica. E questo è l’unico mio rimpianto.

Cap. V – IN PRODUZIONE

Il Marketing

Con gli investimenti finanziati a tassi molto agevolati, con i contributi a fondo perduto, con i salari più bassi, usufruendo inoltre degli sgravi contributivi per il meridione, i nostri amici giapponesi poterono attuare una politica agguerrita per piazzare il nostro glutammato, mantenendo i prezzi bassi sia per trovare compratori, sia per mandare fuori mercato il prodotto concorrente.

Questa “politica” fu, in un certo senso, premiante per i primi anni, perché ottenne i risultati programmati. La Società riuscì a seguire la stessa politica anche quando i salari furono elevati con i passaggi di livello.

Ricordo che in certi periodi, col grande magazzino completamente vuoto, l’autotreno lasciava il rimorchio in magazzino, fissandolo all’ingresso del reparto confezionamento e, man mano che si riempiva il sacco e veniva impilato sulla pedana, il carrello inforcava la stessa pedana e la caricava sul rimorchio, questo perché la produzione non riusciva a soddisfare pienamente le vendite ed i magazzini erano perennemente vuoti

Infatti il mercato “tirava” sufficientemente, anche se non si riusciva ad alzare il prezzo del prodotto per renderlo maggiormente remunerativo.

Per i primi anni c’erano due uffici commerciali impegnati nella vendita, uno a Roma, guidato dal mio vecchio amico dott. Yamada, quello che, quando stavo a Roma, veniva a mangiare alla mensa insieme a noi, l’altro, più attivo, dove aveva il proprio ufficio anche l’Amministratore Delegato, era a Milano presso il quale lavoravano come dipendenti due venditori italiani, uno che curava i piccoli clienti, e l’altro, un laureato amico di famiglia del Presidente, che girava praticamente tutta l’Europa.

Ma l’ufficio commerciale più importante che vendeva la maggior parte del nostro prodotto era la Deutsche Ajinomoto di Amburgo, in Germania, anche se tutti i suoi ordini passavano sempre per l’ufficio di Milano.

Avevamo molti importanti clienti industriali in tutta l’Europa del nord e clienti che fungevano da veri e propri grossisti su tutte le “piazze” più prestigiose. Un cliente grossista olandese, molto importante, era quello che, tra l’altro, acquistava con consegna su di un treno merci a Trieste, treno destinato, con duecento tonnellate di glutammato, oltre la “cortina di ferro”.

Vi erano poi molti TIR tedeschi, olandesi e belgi che, facendo il carico “di ritorno” dal sud Italia, dalla Turchia o dalla Grecia, traghettavano a Brindisi e venivano a caricare direttamente in fabbrica. Pochi erano i clienti francesi.

L’ufficio di Roma tentò in tutti i modi di creare un mercato “al dettaglio” per la vendita di glutammato direttamente ai consumatori, naturalmente in vasetti da 12 o 24 grammi, da mettere sulla tavola insieme al sale e pepe, proponendolo a grossisti e supermercati, ma il tentativo non ebbe successo e, anche per questo, fu poi chiuso l’Ufficio di Roma e Yamada tornò in Giappone.

L’ufficio di Milano vendeva a tutte le più importanti industrie alimentari del Lombardo-Veneto e del nord in genere, piccole, medie e grandi, oltre che alla Star e alla Knorr.

Quando si ritenne fosse arrivato il momento, si iniziò ad ingrandire i reparti produttivi, raddoppiando il numero dei fermentatori, portati a quattro, con tutto quello che serviva a valle del primo reparto, compreso l’assunzione di altri operai, ottenendo, naturalmente, altri contributi a fondo perduto, altri finanziamenti a tasso agevolato e gli ulteriori sgravi contributivi.

Vista la difficoltà di approvvigionamento del melasso, si raddoppiò anche il serbatoio di stoccaggio del melasso in fabbrica, costruendo, affianco al primo, un secondo gigantesco serbatoio, alto oltre venti metri. In verità ho sempre pensato che il secondo serbatoio fosse stato costruito anche per nascondere i nuovi fermentatori agli occhi degli estranei passanti per la strada nazionale.

Per affrontare questa fase tecnica, furono messi sotto contratto, a prestazione, un paio di anziani Ingegneri professionisti, mentre fu assunto, per l’Ufficio Acquisti, il Dott. Cappuccio, proveniente dalla Terninoss di Terni e, prima ancora, dalle Acciaierie di Giovinazzo, esperto quindi di prodotti metallurgici e di lavorazione siderurgica.

Fu anche assunta una coppia di coniugi, sempre provenienti da Terni, dove la moglie era una brava interprete e affiancò il nuovo direttore giapponese, fornito della firma sociale, che poi fu quello che rimase fino alla fine della storia ma che, in breve, come tutti i giapponesi, imparò molto presto l’italiano.

Si dimostrò, invece, molto ostico nell’apprendere l’italiano il nuovo e terzo Amministratore Delegato, anche lui rimasto fino alla fine, nonostante le sue visite mensili, da Milano a Manfredonia, per “leggere”, non appena pronto, il Bilancio mensile e gli indicatori scaturiti.

Negli anni “migliori” si raggiunse un fatturato annuo di poco oltre i 10 miliardi di lire, di cui l’esportazione rappresentava quasi l’ottantacinque per cento. Il fatturato, e l’esportazione, ci classificava fra le aziende medio-grandi più importanti in Italia, anche se la dimensione esterna sembrava piccola.

Con il potenziamento dello stabilimento, la capacità produttiva ipotetica e programmata era di 900-1000 tonnellate al mese di prodotto finito, per un totale annuo di circa diecimila tonnellate. Ho detto ipotetica, perché quasi tutti i mesi si verificavano piccoli inconvenienti che non permettevano di raggiungere il massimo della produzione.

Nel corso di un’animata discussione sindacale con la Commissione Interna, alla presenza del Presidente Prof. Signora, a questi uscì, non sappiamo quanto spontanea, una frase che addebitava anche alle maestranze il mancato raggiungimento della massima capacità produttiva mensile. Qualcuno della Commissione accettò la sfida e lanciò l’idea della scommessa che entro sei mesi si sarebbe raggiunto la piena produttività per 900 tonnellate e il Presidente avrebbe pagato una cena per tutto il personale.

Nei mesi successivi gli operai, ed essenzialmente i Capi turno, furono i principali controllori affinché tutta la lavorazione procedesse nel migliore dei modi, mettendo in evidenza tutte le manchevolezze dell’organizzazione produttiva e, soprattutto, dei servizi di manutenzione.

Al quarto mese il massimo fu solo sfiorato, al quinto mese fu raggiunto e superato. E il Presidente partecipò alla cena con tutto il personale dipendente, operai, dirigenti ed impiegati, nonché quasi tutto il personale tecnico giapponese. La cena si svolse in due serate, distanti una quindicina di giorni, per non interrompere la produzione e per consentire a tutti di parteciparvi.

L’Amministrazione

Il mercato tirava, dunque, ma il prezzo non era remunerativo, almeno sufficiente a consentire di chiudere il Bilancio annuale in attivo. Posso forse sbagliarmi, ma credo che per tutto il periodo della vita della Società, solo uno dei primi anni si chiuse il Bilancio con un utile di un milione di lire, poi solo ed esclusivamente con piccole perdite di esercizio, non preoccupanti ma persistenti, tranne gli ultimi anni di crisi. Con il riporto delle perdite precedenti, non si versò mai alcuna tassa sul reddito all’Erario.

Lasciando mano libera alla INSUD sulla organizzazione della Contabilità Generale e fiscale, i giapponesi fecero le loro mirate richieste sulla organizzazione della Contabilità Industriale, quella, per intenderci, che mira al calcolo dei costi di produzione, alla determinazione del cosiddetto Margine Operativo e al controllo economico di gestione.

Anche in questo campo erano più avanti rispetto ai Ragionieri italiani, che chiamavamo all’epoca, quel tipo di rilevazione dei costi, “Sistema americano” oppure Conto Economico “a scalare” e che divenne di uso comune in Italia solo a partire dalla metà degli anni ’70.

Questo sistema prevedeva la redazione mensile di un vero e proprio Bilancio, appunto di stile “americano”, completo e dettagliato, con la rilevazione del margine operativo, analizzato e confrontato con il Budget preventivo annuale e del periodo, il ché presupponeva, a monte, che i dati raccolti, rilevati e assemblati, fossero completi ed esatti, oltre che omogenei per il raffronto col Budget.

Naturalmente, oltre al personale per la rilevazione e l’elaborazione del “reporting”, occorreva tutta una organizzazione per l’assemblaggio, la scritturazione (a macchina), le fotocopie e la fascicolazione dei prospetti, e questo, secondo i contabili italiani, era tutto uno spreco di risorse, anche perché, è evidente, se il reporting viene completato entro un certo termine, può permettere interventi rettificativi, altrimenti è inutile: noi, dal primo anno di inizio della produzione, il 1966, facevamo un bilancio ogni quindici del mese, con in evidenza gli eventuali scostamenti dal budget.

Il quindici di novembre si valutava e si rettificava, eventualmente, il budget annuale e si prevedeva il consuntivo dell’anno in corso: in questa sede si prevedeva il risultato d’esercizio, la perdita o l’utile e, nel caso, si poteva decidere se intervenire per chiuderlo poi a dicembre in perdita o con utili, scegliendo e valutando gli accorgimenti per raggiungere quanto deciso. Normalmente, si sa, le scelte e gli aggiustamenti si valutano in sede di chiusura del Bilancio civile, a marzo o aprile dell’anno successivo, scegliendo quelle regole elusive, più o meno legali, che, però, nella maggior parte dei casi, prima o poi vengono di nuovo al pettine negli anni successivi.

Nel nostro caso, invece, era una vera e propria scelta operativa e, quindi, inattaccabile sotto ogni punto di vista, bastava, ad esempio, far partire la merce per Trieste il 28 dicembre oppure il 3 gennaio dell’anno successivo.

Avevamo poi la Fattura annuale di spesa per le provvigioni di vendita alla Deutsche Ajinomoto di Amburgo. C’era un vero e proprio contratto di rappresentanza, per cui quasi tutte le vendite all’estero erano disposte da Amburgo che, molto spesso, ci segnalava anche le date d’arrivo del TIR.

Su queste vendite, da Amburgo partiva la fattura per l’addebito delle provvigioni di intermediazione, che venivano da noi pagate periodicamente, Ma non sempre le provvigioni erano calcolate su “tutta” la merce esportata e per lo stesso tasso percentuale: c’erano naturalmente delle variazioni ma i criteri di tutto ciò erano decisi tra loro, tra giapponesi: noi dovevamo soltanto pagare.

Spesso alcuni carichi di merce venivano fatturate direttamente alla casa di Amburgo, per cui si creava un vero e proprio rapporto di conto corrente con “Dare” e “Avere”. Ma il rapporto economico con i giapponesi non si esauriva con provvigioni e forniture.

Il personale giapponese che lavorava in Italia era retribuito dalla casa madre giapponese che, mensilmente, ci addebitava il costo relativo con una notula che richiedeva il pagamento, indicando solo l’ammontare totale e complessivo del conto da pagare. L’elenco nominativo di questo personale, e forse anche il costo individuale, era nelle mani del Direttore giapponese o dell’Amministratore Delegato, sempre giapponese, senza escludere che, a richiesta, potesse essere mostrato al socio italiano, la INSUD che, secondo me, per parecchio tempo, specie all’inizio, se ne disinteressò “elegantemente”.

Sempre i giapponesi decidevano il numero e le persone da impiegare in Italia, mentre, mensilmente si provvedeva a pagare la fattura di addebito. In tanti anni, il personale tecnico cambiò molto spesso, con veloci turnover, almeno a livello di aiutanti o vice-capi, un po’ meno per i chimici Capo Reparto e per gli Amministratori.

Non ci voleva molto per capire che la nostra fabbrica era, per i giapponesi, una vera e propria palestra per allenare i propri tecnici. La controprova a questa asserzione è che, in due o tre casi, i giovani tecnici, a distanza di qualche anno, tornavano a Manfredonia e, dagli inchini che ricevevano, si capiva che era cambiata la loro posizione gerarchica nell’azienda, in meglio.

Del resto, dobbiamo pensare che, se il Giappone era sconosciuto e strano per noi, altrettanto era il mondo occidentale per loro, con la differenza che “loro” si spostavano e cercavano di conoscerci.

Naturalmente c’era una ragione per tutto questo, ma a noi, all’epoca, era sconosciuta o, comunque, non importava più di tanto. La cosa più importante era che, quando le Perdite annuali si accumulavano e raggiungevano la misura di un terzo del Capitale Sociale della Società, gli Amministratori richiamavano i Soci ad effettuare versamenti in contanti per coprire le stesse perdite.

Il Gioiello

I Chimici italiani che avevano costruito lo stabilimento, una volta partiti, non furono subito sostituiti da altri ma dagli stessi tecnici giapponesi, solo dopo qualche tempo fu assunto un chimico laureato cui fu affidata, nominalmente, la funzione di Capo della Produzione, anche per affibbiare la responsabilità civile e penale ad un cittadino italiano, considerato che i tecnici giapponesi erano, nominalmente, solo dei “consulenti”.

Sui Reparti rimase qualcuno dei Periti Agrari che svolgeva la funzione di Vice ma che, in pratica, eseguiva le istruzioni dei tecnici giapponesi. Dove occorreva, divennero vice capi un paio di Periti chimici provenienti dal Laboratorio, sostituiti da altri Periti chimici. Con calma, col tempo, furono assunti giovani laureati in chimica alle prime armi.

In verità, come mi avevano spiegato i tecnici a Roma, la fabbrica era una vera novità per l’Europa, sia sotto il profilo del processo di produzione, sia per le soluzioni tecniche adottate, anche nei servizi tecnici industriali, come, per esempio, il sistema di lavorazione dei rifiuti e degli scarti di lavorazione, che non danneggiavano in alcun modo l’ambiente.

Gli scarti venivano prima letteralmente prosciugati, separando l’acqua dalle altre sostanze concrete, poi separatamente, l’acqua e le cosiddette farine, venivano rese completamente “inerti”, cioè non contenevano più alcuna delle sostanze organiche da cui provenivano, infatti si buttava via acqua demineralizzata ed una specie di terra inerte e non dannosa, filtrata per togliervi qualsiasi traccia biologica del “batterio”. Questa terra diventava abbastanza puzzolente dopo qualche tempo, dopo aver accolto, e fatto morire, altre sostanze organiche provenienti dall’ambiente circostante, come insetti o semi e foglie trasportati dal vento.

Lo scopo primario di questa che era una vera e propria “disinfestazione” dei rifiuti di lavorazione, era sempre quella maniacale volontà di proteggere i segreti del loro brevetto di lavorazione, quei batteri vivi, all’origine di tutta la lavorazione.

Un qualsiasi “trattamento” dei rifiuti nelle fabbriche chimiche italiane ed europee, all’epoca, non solo non era quasi mai effettuato, ma neppure previsto: al massimo si programmava o si fingeva di renderli “non pericolosi” per le persone.

In ogni caso, quindi, i giovani tecnici, chimici e non, avevano molto da imparare e da apprendere, anche sulla organizzazione e la gestione delle risorse umane. Solo che, una volta assunti, dopo aver conosciuto il proprio diretto superiore italiano, si accorgevano di avere altri superiori, e di nazionalità giapponese, non disposti ad insegnare loro alcunché.

La duplicazione dei capi creava qualche confusione nella mente dei vice e, mentre qualcuno non aveva remore a lavorare col capo giapponese, altri provvedevano a carpire quante più nozioni, anche dagli operai, prima di trovare altri sbocchi occupazionali, magari più appetibili anche per motivi logistici.

Infatti, molti tecnici furono convinti ad andare via dalle loro mogli che non ce la facevano a vivere in un “deserto”, per la mancanza di diversivi e divertimenti, specie d’inverno, ma soprattutto per la lontananza dalle proprie sedi di provenienza. Chi rimase fino alla fine, o proveniva da paesi vicini o aveva sposato in loco (effetto della famosa rucola di Siponto).

La motivazione più ricorrente dell’abbandono fu proprio quest’ultima, le difficoltà logistiche, ovvero la volontà della consorte ma, in amministrazione, non ci fu un vero e proprio esodo di massa, data la struttura agile ma, soprattutto, il fatto che, per la maggior parte, il personale amministrativo era di provenienza locale.

In ossequio ad un vago e non scritto principio di gestione manageriale, qualcuno, al principio, riteneva che, nei posti chiave, dovesse esserci solo ed esclusivamente personale di provenienza esterna a danno dell’indigeno. In un paio di casi, l’esterno si rivelò palesemente con una esperienza minore della nostra, oppure con nozioni e conoscenze insufficienti alla bisogna.

Con l’avvento del Dott. Italia, tutta l’organizzazione amministrativa era stata risistemata e il personale locale inquadrato nelle posizioni giuste, assumendo le responsabilità dei propri compiti, anche se non le retribuzioni. Con la malattia e l’assenza dall’Ufficio del Dott. Italia, tutta la struttura amministrativa fu, in un certo senso, collaudata e il risultato fu ottimo.

Questa fu la ragione per cui i giapponesi, in seguito, non consentirono molti cambiamenti di posizioni ma solo qualche piccolo avanzamento e, quindi, chi subentrò al Dr. Italia, trovò l’amministrazione già in ordine ed efficiente, introducendo solo qualche eventuale ritocco in miglioramento, diciamo così, non invasivo, creandosi anche in questo campo “un piccolo gioiello”.

Questa che potrebbe sembrare una mia vanteria è invece una realtà verificata e provata. Lo riconobbe la visita fiscale dell’Ufficio I.V.A. di Foggia, in una delle sue prime “uscite” dopo la Riforma Tributaria del 1974, chiudendo il proprio Verbale di verifica solo con sperticati elogi, riconoscendo la perfetta tenuta dei Registri e delle scritture, nonché il perfetto sistema di archiviazione dei documenti contabili.

A questo proposito vale ricordare come, prima ancora dell’entrata in vigore della Riforma Tributaria, i nostri amministrativi studiarono e approfondirono le leggi di Riforma in un corso organizzato a Milano, presso la Montecatini-Edison, come si chiamava allora, e tenuto dagli estensori e autori delle stesse leggi. Così come, ad ogni mia richiesta motivata, mi consentivano di partecipare a corsi e seminari per migliorare le conoscenze del mio lavoro, man mano che cambiavano le leggi ed i supporti meccanici a nostra disposizione.

Ricordo che all’inizio, quando ero l’unico addetto dell’Ufficio paghe e stipendi, usavo un sistema di sviluppo delle paghe molto manuale con l’utilizzo di una normale calcolatrice Olivetti, opportunamente modificata nel carrello.

Con il Dott. Italia, arrivò uno dei primi “elaboratori” meccanici, grosso e complicato, marca Burroughs, utilizzato anche per la Contabilità generale, che, però, si bloccava molto facilmente, naturalmente proprio quando lavorava elaborando le paghe.

Con Fraschetti, prendemmo uno dei primissimi elaboratori elettronici, un vero Computer Philips che si programmava ogni volta con le schede perforate, con gli archivi su schede a pista magnetica, ed anche con questo ci facevamo la contabilità e le paghe. Cipriani costrinse l’azienda che ci forniva il software ad istruire almeno due di noi a programmare l’elaboratore in maniera autonoma.

Noi che vivevamo dentro e operavamo in quella realtà, specie al principio, non ci rendevamo del tutto conto di questa “eccellenza” anche se, sempre più spesso, inviati e raccomandati dagli Ispettori EFIM, avevamo la “visita” di responsabili amministrativi provenienti da altre aziende del gruppo EFIM per studiare la nostra organizzazione e chiederci informazioni e consigli per risolvere i loro vari problemi amministrativi e logistici.

Proprio in virtù dei tanti riconoscimenti ufficiali, per un paio d’anni, noi quadri dell’Amministrazione, riuscimmo a farci concedere una specie di gratifica di Bilancio, un premio in danaro contante e non soggetto a tasse e contributi, prelevato da quei “fondi neri” dei vecchi interessi attivi che, depositati in libretti a risparmio, producevano e accumulavano ormai solo altri interessi attivi.

C’è da dire, a questo punto, che sia la INSUD che l’EFIM, a livello centrale, compilavano un bilancio annuale consolidato, nel senso che comprendeva tutte le aziende partecipate e, per fare ciò, avevano creato un Servizio Ispettivo proprio, che controllava la contabilità ed i bilanci, anche per consentire ai Sindaci, o Revisori dei Conti, di redigere in tutta sicurezza la relazione che accompagnava i nostri Bilanci civilistici.

Le visite degli ispettori avvenivano almeno quattro volte all’anno, specie i primi anni, poi almeno una volta, ma i contatti telefonici erano costanti, anche perché, mensilmente, si trasmettevano i Bilanci ed i prospetti statistici predisposti dallo stesso Servizio.

Quasi subito, gli Ispettori divennero i nostri migliori amici e promotori presso le altre aziende del Gruppo e, in qualche caso, furono anche coloro che invitarono i nostri colleghi ad accettare altre collocazioni, con trasferimenti che, naturalmente, rappresentavano promozioni e riconoscimenti.

Al termine della mia esperienza lavorativa nella Ajinomoto-INSUD, trovai impiego in altra azienda del gruppo EFIM e, in questa occasione, ebbi modo di confrontare l’organizzazione amministrativa di un’altra azienda e, volendo migliorarla, non avevo da fare altro che richiamare ed applicare le regole della mia precedente esperienza.

Mi spiegai anche le ragioni dello splendido rapporto di collaborazione con gli Ispettori EFIM: la nostra, era l’unica azienda che aveva sempre presentato i prospetti statistici al servizio Ispettivo nei termini previsti e compilati a dovere.

Forse, fu proprio questa realtà che convinse il Dott. Cipriani ad accettare di venire a fare il Direttore a Manfredonia, diventando tuttavia anche Amministratore della Società.

Non era più giovanissimo e rampante, non aveva niente da dimostrare al Gruppo sulla propria professionalità: il suo compito, ci riferì, era di capire quale fosse l’avvenire della partecipazione INSUD nella Società e cosa si potesse “cavare”, o guadagnare, dalla stessa.
Cap. VI – ARIE DI CRISI

Le Gabbie salariali

Dopo il primo mese col record e la scommessa vinta dagli operai, si mantenne l’alta produttività dello stabilimento, sempre vicino al livello massimo.

Nel frattempo, terminata la stagione degli scioperi per il rinnovo del contratto di lavoro, iniziò la vertenza nazionale per l’abolizione delle cosiddette “gabbie salariali”, ovvero la “parificazione” dei salari tra il nord ed il sud. Ogni Contratto Nazionale di Lavoro prevedeva le Tabelle salariali divise per categoria e, all’interno di ciascuna categoria, un importo separato per il nord Italia e, inferiore, per il Sud.

Poi c’era l’indennità di contingenza che era la parte “mobile” del salario dei lavoratori dipendenti che doveva “adeguare”, trimestralmente, il potere d’acquisto del salario all’andamento del costo della vita. Era diversa per ciascuna zona d’Italia, c’era il Tipo “A” e poi il Tipo “B”, più bassa, naturalmente, per il Sud. Era poi anche rapportata alle categorie salariali, differenziata per dimensione dell’azienda, per età e sesso del lavoratore.

Nel 1968 iniziò la battaglia sindacale per l’abolizione delle “gabbie salariali” con molti scioperi e dimostrazioni di forza da parte dei sindacati, finché, a rompere il cosiddetto “fronte padronale”, ci pensò l’INTERSIND, il sindacato delle imprese a partecipazione statale che, però, riconobbe solo la parificazione delle Tabelle salariali dei Contratti di Lavoro.

Intanto continuava la battaglia per la contingenza che, dalla fine del 1969, fu alla fine concessa, anche se in scaglioni successivi e si giunse alla parificazione della contingenza tra le varie zone d’Italia, cioè il valore della contingenza, differenziata solo per categoria ma uguale dal nord al sud: era l’abbattimento, appunto, delle “gabbie salariali”.

Ci fu chi preconizzava un aumento del tasso di inflazione, chi predisse una incontrollata crescita del costo del lavoro, chi pronosticò, a causa di ciò, l’abbandono della appena accennata fase degli investimenti industriali nel mezzogiorno: a tutti questi, il Segretario nazionale della C.G.I.L. rispose che “”il costo del lavoro è una variabile indipendente rispetto al costo della produzione”” per cui non si sarebbero verificate quelle previsioni.

Per me, che facevo ogni anno il budget preventivo del costo del lavoro sarebbe stato molto difficile far capire ai nostri amici giapponesi una affermazione del genere, perché saltò subito agli occhi l’aumento del costo del lavoro in seguito all’adeguamento della contingenza del sud a quella del nord.

Poi, era già difficile per me giustificare, ogni trimestre, la previsione in crescita del costo del lavoro, sulla base dei punti di contingenza in aumento. Loro erano pragmatici e la previsione di aumento volevano vederla documentata, mentre gli aumenti si dovevano interpretare leggendo tra le righe dei vari analisti e commentatori economici.

Si verificarono, puntualmente, tutte, ma proprio tutte, quelle pessimistiche previsioni avanzate dagli analisti ed economisti. Fissato a priori il valore base del punto di contingenza, l’aumento di un punto scattava quando l’aumento del costo della vita superava lo 0,50 per cento rispetto al trimestre precedente.

Ad ogni scatto in aumento della contingenza, cresceva il costo della vita per cui, alla prossima rilevazione, scattavano altri punti di contingenza e così via. Soltanto che, aumentando l’indice del costo della vita (numeratore) e rimanendo fisso il punto di contingenza (denominatore) come quando si era partiti, dopo pochi trimestri l’aumento degli scatti cominciò a diventare sempre più facile a verificarsi ed a duplicarsi: diventarono due al trimestre o due e mezzo, con il mezzo che si sommava all’aumento del prossimo trimestre; ed al prossimo trimestre, con i resti precedenti, i punti era facile diventassero tre.

Ma la rincorsa reciproca, tra l’aumento della contingenza e l’aumento del costo della vita, non adeguava il salario al costo della vita, come era nell’idea originaria di partenza, anzi, più aumentava la contingenza, più si divaricava la differenza rispetto al potere d’acquisto “reale”, cioè al netto dell’inflazione, del salario del lavoratore dipendente, ma sulle ragioni di questa divaricazione sono stati già scritti molti libri.

Un anno avevo previsto nel budget un aumento di ben dieci punti di contingenza, un azzardo all’atto della previsione, ma al consuntivo, al 15 novembre di quell’anno, i dieci punti previsti erano diventati undici effettivi, per cui, per il budget dell’anno successivo, tutto mi portava a ipotizzare un aumento di 15 punti di contingenza. Molti analisti finanziari erano dell’opinione che, se si fosse verificato un aumento annuale superiore ai dodici punti, avremmo avuto una inflazione galoppante con il fallimento dell’intera economia industriale italiana.

Dopo una tormentata e sofferta gestazione, decisi di calcolare i costi nel budget prevedendo i quindici punti di contingenza e portai il risultato all’Amministratore giapponese, preparandomi ad una lunga e analitica discussione.

Invece, quell’Amministratore dallo sguardo impenetrabile, dopo aver studiato i miei calcoli e letto tutte le mie annotazioni a margine, mi fece una sola domanda:

– «Do you think so? (Lei crede?)» – ed alla mia risposta affermativa rimase in silenzio un buon minuto poi mi ringraziò e salutò.

E quell’anno la contingenza aumentò di 15 punti, l’Italia restò in piedi e pure il sistema industriale che si era adeguato, evidentemente, all’inflazione.

I Rimedi

Indipendentemente da quel che pensava il Sig. Luciano Lama che, tra l’altro, dopo qualche anno definì “una bestialità” quella sua affermazione, la lievitazione del costo del lavoro incise pesantemente sul nostro costo di produzione e rese il nostro prezzo di vendita, questo sì del tutto indipendente da qualsiasi aumento del costo della vita, non più remunerativo. E le perdite della Società aumentarono e si accumularono, costringendo i Soci a continui versamenti per “pareggiare” ed annullare le perdite stesse.

Dopo i primi anni, lentamente il prezzo del glutammato era cresciuto, anche se non di molto. In Europa, i concorrenti corsero ai ripari e, col prezzo cresciuto, aumentò la produzione totale, determinando una offerta superiore all’impiego e, a questo punto, la quotazione riprese a scendere.

I nostri amici giapponesi non vollero ribassare il prezzo del nostro glutammato e preferirono “non svendere” il prodotto, accumulando e stivando la produzione, con la speranza che la crisi durasse poco. Una volta riempito il nostro magazzino, si ricorse all’affitto di altri capannoni esterni da riempire.

Con la produzione al massimo e le vendite col contagocce, la Società si trovò in crisi finanziaria, una vera e propria mancanza di contanti. C’è da ricordare che, all’epoca, i tassi bancari erano elevati ed in crescita continua, anche per noi che avevamo un trattamento di favore e godevamo del cosiddetto “prime rate”, ma anche questo cresceva più volte nel corso dell’anno e nessuno era in grado di prevedere quando e di quanto sarebbe cresciuto.

In una situazione del genere, per la prima volta, i nostri amici giapponesi misero mano al portafogli e rimpolparono le finanze della società. Ci fu, nei primi mesi del 1971, un primo versamento di un milione di dollari USA, tramite la Deutsche Ajinomoto di Amburgo, che doveva far parte di una tranche totale prevista di almeno tre milioni.

Il secondo versamento partì dal Giappone in piena estate, ma ritardava ad arrivare. Avevo lasciato l’Ufficio Paghe diventando il Capo Contabile, per cui toccò a me aspettare da solo in ufficio l’arrivo della rimessa del contanti, per far poi partire i pagamenti a favore dei fornitori, ed ero in servizio il 15 agosto 1971, quando il Presidente americano Nixon annunciò la fine della convertibilità del dollaro USA con l’oro.

Per lavoro, tutte le mattine, mi leggevo il giornale “Il Sole-24 Ore” e mi annotavo a mente il cambio del dollaro USA, del marco tedesco e quello dello Yen giapponese, sicuro che, nel corso della giornata, il Direttore giapponese me l’avrebbe chiesto.

Dal sedici agosto, dopo l’annuncio di Nixon, il tabellino dei cambi ufficiali del dollaro rimase fermo a quello del 14 agosto, intorno alle 627 lire per dollaro.

Cominciai a parlare con i vari direttori di banca, accorgendomi che molti erano rientrati frettolosamente dalle vacanze. Quando sentirono che avevo un bonifico in dollari in arrivo, si scatenarono tutti i Direttori e funzionari a chiedermi di appoggiare il bonifico sulla propria banca.

In effetti, sul mercato monetario, la moneta straniera, e quella USA in particolare, scarseggiava perché, mentre era richiesta per l’acquisto da parte delle aziende importatrici, i possessori, e quindi gli esportatori, attendevano la stabilizzazione del nuovo cambio, in continuo rialzo, per incassare le proprie divise estere in dollari: gli uni e gli altri si attendevano infatti un notevole balzo in aumento del cambio, chi lo temeva e chi lo sperava.

Con il tasso di cambio “fluttuante” e “libero”, cioè determinato “liberamente”, senza l’intervento di autorità di controllo e di riferimento, noi però non eravamo in condizione di poter speculare e attendere, per cui, quando, nel giro di una diecina di giorni, arrivò la rimessa del milione di dollari, l’unica speculazione che potei fare fu quella di domiciliarla sulla banca che mi offrì il tasso di cambio migliore, e ne ricavammo una buona ed inaspettata plusvalenza di oltre duecento milioni di lire.

Un po’ per la plusvalenza realizzata, un po’ perché il nuovo cambio del dollaro rendeva più competitivo il prezzo in dollari del nostro glutammato, le vendite all’estero cominciarono a crescere e, nel giro di dodici mesi, si riuscì a scaricare i magazzini a sufficienza per guardare al futuro con più serenità, mentre i giapponesi non versarono il terzo milione previsto, sacrificando, bontà loro, i propri crediti per il costo del personale e quello delle provvigioni, ritardandone l’incasso ma senza rinunciarvi.

La crisi intanto, consigliò gli Amministratori a ricorrere ai ripari e di mettere in atto misure per ridurre i costi. Furono riviste alcune previsioni sul futuro e ridimensionati alcuni obiettivi. Per prima cosa si ridusse il numero degli impiegati superiori dello staff dirigenziale.

Andarono via alcuni degli ultimi arrivati, impiegati provenienti dalla Terninoss, azienda già presieduta dal Prof. Signora, si chiuse l’Ufficio commerciale di Roma e si rinunciò al programma di lancio di vendita diretta al consumo. La gran parte delle posizioni di lavoro lasciate libere da coloro che andarono via o non furono surrogate, oppure furono “coperte” dal personale rimasto nel reparto.

In verità, a margine di questi avvenimenti, avvenne che, per la prima volta, il Direttore Amministrativo Fraschetti, per la chiusura del Bilancio civilistico, adottò dei provvedimenti contabili che cercavano di diminuire l’entità della perdita e queste “operazioni” ci vennero comunicate dall’alto, senza spiegazioni o motivazioni.

Alla luce delle successive esperienze e avvenimenti, oggi mi sembra chiaro che il povero Fraschetti, da noi sempre snobbato e diminuito nella sua autorità dirigenziale, proprio perché non aveva, secondo noi, apportato nessuna nuova esperienza alla nostra organizzazione, in un certo senso si avvaleva ora, per la prima volta, delle sue prerogative di Direttore, e ci “dettava” le disposizioni che noi dovevamo pedissequamente eseguire.

Forse, quindi, non rispettava la solita forma, anche perché i giapponesi avevano discusso direttamente con lui la loro esigenza di voler diminuire le perdite per diminuire appunto i versamenti.

Ai nostri occhi male abituati, invece, sembrava che lui, nella sua qualità di Amministrativo che doveva difendere gli interessi della INSUD, stesse adottando dei provvedimenti ad insaputa della stessa INSUD e senza preventivamente chiedere consiglio o preavvertire, come normalmente si faceva da parte degli altri suoi predecessori e da noi stessi.

Forse commise anche un piccolo errore di valutazione perché, assunta la Direzione effettiva, chiese ai giapponesi di apportare alcune modifiche nella organizzazione, anche queste senza preavvertirci e mettendoci di fronte al fatto compiuto.

Ci fu la rivolta degli amministrativi con la richiesta di intervento del Presidente del Collegio Sindacale della società, di estrazione INSUD, per rivedere le misure “elusive” che si intendevano adottare.

Venne il Sindaco, si rese conto della situazione, approvò sostanzialmente le misure elusive, del tutto legali, e ci promise che, per quanto riguardava noi amministrativi, tutto sarebbe rimasto come prima, come effettivamente avvenne, elogiandoci, non per la denuncia, ma per la professionalità e l’esperienza da molti di noi acquisita. Dopo qualche mese, il Rag. Fraschetti si dimise e, dalla INSUD, fu mandato il Dott. Cipriani.

Oggi, alla luce delle attuali acquisite esperienze, mi viene il sospetto che la visita del Presidente del Collegio Sindacale, per quanto breve, fu piuttosto approfondita ed esauriente e determinò, o almeno accelerò sicuramente, in seguito l’uscita della INSUD dalla compagine societaria.

Il Dottor Cipriani

Oltre a ricoprire la posizione del Direttore Amministrativo, con la firma abbinata al Direttore giapponese, il Dott. Cipriani, fratello tra l’altro del più famoso direttore d’orchestra Stelvio, divenne Consigliere di Amministrazione della Società e il primo provvedimento di tale sua posizione fu quella di esercitare la decennale opzione prevista in sede di fondazione e annunciare la volontà della INSUD di uscire dalla Società. Ed infatti, nel 1974, il trenta per cento delle azioni ex INSUD furono acquistate dalla Deutsche Ajinomoto di Amburgo.

Quasi contemporaneamente all’arrivo del Dott. Cipriani, anche se non legato a questo, ci fu nel medio Oriente la guerra del Kippur tra israeliani e palestinesi, con la conseguente crisi mondiale che portò il caro petrolio, con le prime domeniche a piedi, la crisi di mercato di tutte le materie prime e la riduzione di tutti i consumi, mentre crebbe in misura esponenziale il costo dell’energia elettrica e dei combustibili petroliferi, questo nel triste inverno tra il 1973 ed il 1974.

Spiegare oggi ad un giovane cosa avesse significato per noi quella crisi mondiale, mi sono accorto che era ed è difficilissimo. Forse l’unico degli effetti che può rendere l’idea è la quotazione del petrolio greggio sul mercato internazione.

Per decenni, dal dopoguerra, il prezzo del petrolio si era mantenuto stabile, poco al di sotto dei 2 dollari al barile, diventando uno degli indici fissi per l’andamento dell’inflazione mondiale, paragonando alla sua quotazione quella dell’oro, del grano e delle altre materie prime in genere.

Improvvisamente, allo scoppio della guerra del Kippur, il prezzo del petrolio balzò ai 10 dollari al barile, continuando a salire in maniera incontrollabile, tanto che, nel primo semestre 1974, superò i 50 dollari, mettendo in crisi l’economia mondiale.

Il miglior commento alla crisi fu dello stesso Dott. Cipriani che, per farci capire la situazione, disse:

– «Oh ragazzi! D’ora in poi, il mondo non sarà più lo stesso! Niente più sarà come prima!» – ed aveva ragione!

Forse per intervento di Cipriani, forse per autoconvincimento del giapponesi, ci fu una nuova drastica riduzione dei costi. Uno dei giapponesi dell’Ufficio commerciale di Milano ritornò, formalmente e contabilmente, alle dipendenze della Ajinomoto tedesca, anche se non variò minimamente il suo modo di operare, continuando a viaggiare in tutta l’Europa e tra Milano e Amburgo ma, almeno ora gli pagavamo solo le spese di questi viaggi e non il lauto stipendio e le spese degli altri suoi tours europei.

Le richieste di aumento del Dott. Cappuccio non furono accolte, e lui si licenziò, anche se poi ritornò nel 1976 come Direttore di Stabilimento. Andarono via il Capo della produzione, un chimico, e diversi altri Capi Reparto. Era già andato via anche il Capo contabile, sostituito da me e, poco dopo, anche il Direttore Ing. Raffetto, sostituito dall’omologo giapponese che ebbe la firma sociale abbinata a quella del Dott. Cipriani.

Tra l’altro, poiché i nuovi capi reparto vennero scelti tra il personale interno, che poi erano gli ex vice o assistenti, ritenni fosse opportuno completare la formazione degli stessi ad essere “capi”, considerato la nuova politica di riduzione dei costi.

Organizzai infatti, con l’approvazione della direzione, una specie di corso “accelerato” per istruirli su tutto il sistema che avevamo per la rilevazione ed il controllo dei costi per reparto. Per molti il nostro sistema di controllo fu una sorpresa, gli altri, già scettici, dovettero ricredersi ed adeguarsi.

Ma la crisi era grave e, all’epoca, nessuno era in grado di poter prevedere quanto sarebbe durata e come fare per uscirne, anche perché, uscire dalla crisi, significava anche salvare l’economia mondiale.

In verità, i nostri giapponesi avevano, nei loro programmi pluriennali, una idea che poteva far uscire dalla crisi la nostra società, ma la misero fuori nel momento più infelice ed inopportuno, quando i buoi erano già scappati dalla stalla, cioè quando il Dott. Cipriani, cedendo il primo trenta per cento delle azioni, annunciò anche che la INSUD intendeva rinunziare a breve alla titolarità delle restanti azioni per uscire completamente dalla Società perché non più interessata a quella cooperazione.

La scusa ufficiale fu quella che la INSUD aveva modificato le sue strategie di partecipazione, essendosi indirizzata verso le attività turistiche-residenziali. Infatti, nel 1974 aveva acquistato le azioni della VALTUR ed era impegnata nella costruzione di villaggi turistici in Calabria e nel Salento. Aveva “omesso” di dire che l’EFIM, per la partecipazione nelle industrie alimentari, aveva creato appunto la SOPAL, con Presidenza socialdemocratica.

Nel frattempo, i crediti della casa madre giapponese per il prestito del personale si erano accumulati, come anche i crediti per le provvigioni di vendita della Deutsche Ajinomoto di Amburgo.

La casa madre, la Ajinomoto Co. Inc. di Tokyo, aveva anche provveduto a versare un milione di dollari americani per rimpolpare le finanze della società di Manfredonia e, all’inizio del 1976, non si era ancora verificato alcun favorevole avvenimento per procedere a diminuire tale debito.

Fu in questo stato di cose che, in quell’anno, ci colse la legge n. 159, quella sul divieto di esportare capitali all’estero, con pene durissime per i trasgressori, prevedendo l’arresto ed il carcere immediato.

Con una lunga ed intensa campagna accusatoria, in televisione e su tutti i mezzi di comunicazione, durata parecchi anni, si era “scoperto” che la maggior parte degli italiani preferiva esportare all’estero, specie in Svizzera, i propri capitali, anziché investirli in Italia e, quindi, impoverendo le finanze del paese. Invece di cercare di abolire la causa dell’esportazione dei capitali, si decise di vietarne l’effetto.

Subito, non appena approvata la legge, qualche Pubblico Ministero provvide a mettere le manette agli esportatori e, insieme, a quei direttori di banca che avevano provveduto ad eseguire gli ordini del possessore di capitali, con larga esposizione di nomi e immagini sui giornali e in Tv, e, naturalmente, subito imitati dagli altri colleghi Magistrati in tutto il resto dell’Italia.

Il primo effetto fu che tutte le banche nostre corrispondenti, vennero a ritirare i modelli per l’esportazione che avevo numerosi, già firmati, nel mio cassetto. Qualcuna, più lungimirante, me ne lasciò sempre un paio non firmati, ma bastava una telefonata, che arrivava in stabilimento un procuratore per le firme e la regolarizzazione. I funzionari di banca più paurosi, non ne vollero sapere e preferirono rinunciare a lavorare con l’estero con noi.

Ci fu, a questo punto, qualche funzionario più amico che, anche con l’intento di proteggere se stesso, consigliò di sospendere e attendere a pagare le fatture di Tokyo e Amburgo, perché quei nostri pagamenti o trasferimenti all’estero, tra società quasi omonime, potevano creare qualche sospetto di esportazione di capitali e, anche all’epoca, prima si andava in galera e poi ci si accertava se ci fossero motivi commerciali seri e validi per eseguire i pagamenti stessi.

Dovetti spiegare tutta la situazione al direttore giapponese quando, proprio in quei frangenti, mi chiese di pagare un paio di fatture arretrate per Tokyo. Per fortuna, all’epoca, eravamo da poco diventati clienti della nuova e prima filiale milanese di The Bank of Tokyo, ed evidentemente qualcuno di questa banca aveva confermato e ritenute valide le mie remore nel pagare fatture all’estero.

Cap.VII – L’INIZIO DELLA FINE

I motivi.

Come ho accennato prima, la fabbrica di Manfredonia era, per i giapponesi, il primo piede posto sul suolo europeo, allo scopo di stanziarsi, di studiare il mercato, di conoscere l’ambiente umano e sociale, di apprendere le leggi locali.

In Giappone ed in Oriente, le fabbriche Ajinomoto, oltre al glutammato, producevano anche aminoacidi e prodotti derivati dagli aminoacidi, mentre, nei loro laboratori, i chimici ne scoprivano e isolavano sempre nuovi tipi. Producevano anche diversi additivi alimentari che facevano parte, da millenni, del gusto e dell’alimentazione orientale.

Ma tutti i loro studi e le loro ricerche indicavano e prevedevano che la maggior parte degli aminoacidi sarebbero diventati, sempre di più, materia prima per le industrie chimiche farmaceutiche, per la produzione degli integratori alimentari, per la produzione di additivi e perfino per la cosmetica ed i prodotti di bellezza. E le più grosse ed importanti industrie del ramo e farmaceutiche, oltre agli USA, si trovavano in Europa.

Erano venuti in Italia associandosi alle Partecipazioni Statali con il programma di proporre poi ai partners, al momento opportuno, sempre nuovi investimenti, nuove produzioni e nuovi mercati: il partner ora si ritirava e le P.S. erano disinteressate.

Scoprirono che l’Italia, rispetto alle proprie aspettative, era un paese economicamente e politicamente instabile, dove era difficile, molto difficile, fare un programma pluriennale di investimenti e di produzioni in quanto il costo del lavoro, per esempio, era soggetto a forti sbalzi e vi erano molte ingerenze e perturbazioni da parte di ambienti esterni alla fabbrica (leggi i Sindacati).

Constatarono anche che, contrariamente a quel che si propagandava nelle sedi internazionali, non si facilitava l’investimento di capitali esteri se, poi, si ponevano limiti, lacci e lacciuoli per il ritorno delle rendite e degli utili all’estero e, perfino, per il pagamento dei debiti verso i creditori esteri.

Si era ormai nel pieno degli anni della cosiddetta “strategia del terrore”, ricordati in seguito come “anni di piombo”, con attentati quasi giornalieri verso politici e imprenditori, contro sindacalisti, giornalisti e docenti universitari, con incidenti e rivolte nelle università e nelle scuole superiori, continuate poi per strada, con cariche di polizia e qualche sparo ad altezza uomo, il tutto ampiamente riportato ed illustrato sulla stampa, anche estera.

A giugno del 1976, poi, ci furono in Italia le elezioni politiche che, per la prima volta, dettero ai Comunisti italiani oltre il 34 per cento dei suffragi.

Alcuni giapponesi ci chiesero:

– «Ed ora, che succederà in Italia?» – e, a loro, non sembrava credibile la nostra risposta che niente sarebbe cambiato. Si era in piena Guerra fredda e il minaccioso Gigante Sovietico, che per noi era qualcosa di lontano, loro, i giapponesi, l’avevano al di là del proprio confine ed era sempre minaccioso, non mostrandosi mai soddisfatto delle poche isole più settentrionali dell’arcipelago, sottratte all’Impero giapponese dopo la seconda Guerra Mondiale.

Inoltre, nella memoria elefantiaca della casa madre a Tokyo, era sempre presente la brutta fine della loro fabbrica della California durante la stessa guerra, e nessuno avrebbe voluto essere ricordato per la perdita di un’altra fabbrica in Italia.

Il Governo giapponese, tramite l’apposito Ministero per l’Industria, era sempre presente nella vita aziendale, si informava dei programmi industriali, dei nuovi investimenti ed era sempre pronto ad appoggiare logisticamente le imprese con notizie, campagne promozionali e ricerche di mercato, facilitava l’incontro fra imprenditori con l’associazionismo ma, soprattutto, provocando gli incontri per eventuali partnerships.

Nessun Ministero italiano, tranne il Fisco, si era occupato di informarsi della fabbrica di Manfredonia. Le Partecipazioni Statali si erano preoccupate solo ed esclusivamente della amministrazione contabile, non avevano mai chiesto un piano pluriennale industriale di investimenti e programmazione.

Quando i giapponesi lo presentarono al Dott. Cipriani, questi si era ormai già convinto che l’unica soluzione praticabile dalla INSUD era quella di uscire dalla Società.

Attenzione però. Il motivo non era dovuto alla sfiducia nei confronti dei programmi di investimento proposti, anche se occorreva del personale tecnico veramente all’altezza per valutarli, che non era presente nella INSUD e non era a disposizione tra l’organico delle Partecipazioni Statali.

Il motivo principale, secondo il Dott. Cipriani, era che i patti para-sociali firmati al momento della fondazione erano sbagliati all’origine, perché avevano lasciato campo libero ai giapponesi di fare tutto ciò che avevano voluto, con l’addebito indiscriminato di costi di personale, di provvigioni, con il controllo pieno della produzione e delle vendite.

Il risultato era stato che, mentre il socio giapponese qualcosina ci aveva cavato fuori dallo stabilimento, in termini di esperienze, di formazione del personale e, perché no, anche di danaro, tra rimborsi spese e provvigioni, il socio italiano ci aveva solo rimesso un bel po’ di soldi, tra capitale iniziale e ripianamento delle perdite.

Lui, viareggino, spiegava:

– «Restare qui solo per fare il pupazzo e continuare a prendere il famoso “cetriolo”? Eh no, ragazzi! Oh via! Mi dispiace, ma questo non sarò io!» –

Per affrontare, a questo punto, un qualsiasi programma di nuovi investimenti, la prima cosa da fare, dunque, sarebbe stata quella di rivedere i patti para-sociali e ridiscuterli: questo significava, oltre a quello che si era già perso, perderci anche la faccia e dover ammettere che si era sbagliato tutto dall’inizio; significava, di conseguenza, additare e denunciare quegli organi EFIM che, all’epoca, avevano accettato quel tipo di accordo.

Significava anche dover poi condividere con i giapponesi, che erano bravissimi e già esperti, una parte delle responsabilità tecniche ed operative sul piano industriale. Meglio lasciar perdere!

Tuttavia, queste considerazioni finali del Dott. Cipriani, le ho apprese solo dopo qualche tempo che la vicenda della fabbrica si era ormai conclusa, anche perché, dalla metà del 1975, aveva assunto la Presidenza di un’altra Società (della SOPAL) a Barletta, pur conservando la firma, abbinata col Direttore giapponese, per i pagamenti e le riscossioni.

Gli preparavo le carte sulla sua scrivania e lui “passava” per le firme ad orari sempre più imprevedibili. Le nostre conversazioni erano sempre e solo telefoniche, ma io non mi ponevo alcun problema, almeno fino a quando, con l’approvazione dell’ultimo Bilancio del 1975, cioè nella prima metà del 1976, si dimise da Direttore e Consigliere di Amministrazione.

Giustamente, prima di andar via, e quindi prima dello scoppio della crisi finale, Cipriani portò con sé, a Barletta, un paio di colleghi amministrativi, disposti a trovare altre collocazioni e avventurarsi in nuove esperienze di lavoro, mentre io, molto ingenuamente, scelsi di rimanere al mio paese.

Non avevo ben compreso la sua frase che, dall’Ajinomoto, lui dovesse ormai solo tirar fuori tutto quello che c’era di buono e che valeva la pena.

La “nuova vita”

L’anno cruciale, dunque, fu il 1976, quello in cui si decise il futuro della fabbrica e dei suoi dipendenti. La decisione della chiusura fu presa a Tokyo, quando i giapponesi erano ormai rimasti unici proprietari della società e quindi, i motivi elencati prima, gli attentati, i comunisti, le leggi restrittive e contraddittorie, oltre all’aumento dei costi ed all’importanza dei sindacati in fabbrica, furono valutati a Tokyo, molto lontano dalla realtà italiana.

Si decise di chiudere la fabbrica nella maniera meno dolorosa, anche rimettendoci qualcosa in termini di capitali e spese ma, soprattutto, si scelsero le persone che avrebbero guidato questa dismissione, insieme al preesistente condirettore di Stabilimento giapponese ed all’Amministratore delegato presente ed in servizio a Milano.

Tra settembre ed ottobre del 1976 vedemmo ritornare in Italia, e stabilirsi a Milano, il dott. Yamada, quello laureato in giurisprudenza che veniva a mangiare alla mensa con me a Roma, e quel piccoletto, il dott. Okada, quello che, da capo reparto, aveva spento il fuoco acceso all’inizio dai chimici italiani e poi, da capo fabbrica, aveva raddoppiato la produzione e raggiunto il record della massima produttività.

Costoro richiamarono in servizio il Rag. Fraschetti ed il Dott. Cappuccio, ex capo dell’Ufficio acquisti e diventato Direttore di stabilimento, anche lui laureato in giurisprudenza.

Noi, naturalmente, non sapevamo nulla della decisione di chiusura presa a Tokyo, non conoscevamo il compito affidato ai due giapponesi richiamati in Italia e men che meno ai due figuri italiani, anch’essi richiamati in servizio. Se qualcuno sapeva tutto ciò taceva, e non necessariamente per complicità con i giapponesi, ma proprio per evitare o, comunque, non provocare incidenti e reazioni inconsulte e inutili nelle maestranze.

Ed infatti, quando entrammo nella stanza del Prof. Signora per porgergli gli auguri, lui si alzò dalla scrivania e ci venne incontro, non per cortesia o altro, ma solo per un moto di imbarazzo, dovendo nasconderci tutto quanto discusso in quella giornata, vale a dire il passaggio alla fase operativa per quanto riguardava appunto la chiusura dello Stabilimento, dopo aver deciso e programmato ogni azione da quel giorno in poi.

Ed a lui, come a Cipriani, non sembrava vero che i dipendenti non si fossero resi conto che si stessero vivendo gli ultimi giorni di attività della fabbrica, che a tutto quanto si stava preparando non ci fossero reazioni, né accenni di protesta o di semplice agitazione.

L’offerta fattami da Cipriani per accettare un’altra posizione di lavoro presso la SOPAL, la nuova Società finanziaria dell’EFIM per le industrie alimentari e simili, mi aveva naturalmente lusingato, e mi ero accorto che il mio rifiuto gli era molto dispiaciuto. Per questa ragione cercai di mantenere un certo contatto, almeno telefonico, anche se, per i suoi continui spostamenti, era molto difficile seguirlo e afferrarlo.

Con le informazioni avute da un ex collega che lo aveva seguito, riuscii a contattarlo a metà dicembre del 1976 e, dopo aver scambiato gli auguri ed i soliti convenevoli, lui mi chiese:

– «Come va laggiù, in fabbrica?» –

Evidentemente non voleva avere notizie sull’andamento industriale, non aveva ormai alcun interesse in questo senso, per cui gli chiesi imbarazzato cosa volesse intendere. E lui:

– «Voglio dire, se l’ambiente è tutto calmo e tranquillo o ci sono agitazioni dei dipendenti, dei sindacati?» –

– «Si,» – ammisi io: – «in verità c’è stata una richiesta di notizie e spiegazioni ai giapponesi, ma questi hanno assicurato che non sarebbe cambiato niente, sul piano industriale e produttivo. Ma, questo, qualche tempo fa, penso due o tre mesi fa. Perché, doveva succedere qualcos’altro?» –

– «No, no! Non necessariamente! Va bene! Meglio così.» –

Queste parole di Cipriani e, naturalmente, quelle quasi simili del Presidente, continuarono a frullarmi in mente per tutto il periodo del Capodanno. Al ritorno, mi accorsi che la stessa cosa era successa al collega Tavano ed insieme, cercammo di pensare a cosa potevamo fare.

Tentammo di dare la sveglia ai nostri sindacalisti ed ai nostri operai per invogliarli a chiedere precise garanzie sulla continuità del lavoro in fabbrica, ma fu un’opera molto difficile perché, per muoversi, loro ci chiedevano prove e documenti sicuri, mentre qualcuno ci tacciava di allarmismo e di vedere lucciole per lanterne.

Devo responsabilmente ammettere che, se solo mi fossi impegnato un poco, qualche prova si sarebbe potuto produrre. Infatti, con la fine dell’anno 1976, doveva cessare definitivamente l’affiliazione della Società alla Intersind, l’associazione sindacale padronale per le imprese a partecipazione statale, per passare eventualmente alla Confindustria. Fu invece rinnovata, anche per l’anno 1977 l’affiliazione Intersind, per essere riconfermata anche dopo le precisazioni e le spiegazioni della componente sindacale, che volle onestamente evidenziare i requisiti per l’affiliazione.

La motivazione del rinnovo fu addebitata all’ignoranza dello straniero per le norme ed i distinguo della burocrazia italiana, e i nostri operai sindacalisti accettarono la spiegazione, anzi la approvarono, in quanto erano ancora indecisi e stavano ancora studiando i due contratti di lavoro, quello per le aziende chimiche parastatali e quello per le aziende private, per vedere eventualmente quale dover scegliere, quale fosse più conveniente per gli operai, come minimi tabellari e normative contrattuali.

Come responsabile amministrativo, dopo le dimissioni di Cipriani, mi recavo spesso a Milano ma, in quel periodo, trovai e mi fabbricai molte scuse per andarci, per vedere cosa stesse succedendo. Riuscii ad apprendere solo che, sia i due giapponesi, che il Rag. Fraschetti e, quando era a Milano, lo stesso Dott. Cappuccio, frequentavano un ufficio milanese diverso dal nostro.

Una volta trovai in ufficio il Presidente Prof. Signora che si informò dei motivi della mia trasferta a Milano. Ci ero andato con la scusa di visitare alcuni clienti morosi, e lui mi incoraggiò a dedicarmi a quella incombenza. A sera, ritornando in Ufficio, tornai dal Presidente con la scusa di relazionare sulla mia missione, ma lo trovai molto spento, distratto e quasi assente con la mente, e non riuscii a formulargli nessuna delle domande preparatemi.

Mi dedicai quindi a pressare la Segretaria dell’ufficio milanese che, oltre ad essere molto riservata, era anche molto spaventata, e solo dopo molte insistenze, fuori dall’ufficio, mi raccontò che, nei giorni precedenti si erano svolti molti incontri dell’intero staff con un noto avvocato milanese ed altri assistenti del suo Studio, e molto spesso si alzava il tono di voce, specie da parte del Dott. Yamada.

Secondo il suo parere, l’argomento sembrava dovesse essere l’ingresso di nuovi partners nella società o, addirittura, la vendita dello stabilimento. Anche il mio amico venditore, quello amico di famiglia del Presidente, tutte le volte che andai a Milano era in giro per l’Europa. Tornavo quindi a Manfredonia con niente di concreto ma molte sensazioni di allarme.

Per distogliere la mente degli impiegati da qualsiasi sospetto di abbandono, Cappuccio iniziò a mostrare ed illustrare a tutti un suo progetto per la completa ristrutturazione dell’Amministrazione, compreso il Magazzino. In verità, quando mi riferì la sua idea, mi raccomandò la riservatezza sull’argomento che voleva condividere solo con me. Non mi fidavo della persona e, comunque, evitavo di dare risposte con la scusa che volevo pensarci su più a lungo.

Poi, l’ultima volta, mi chiamò nel suo ufficio per mostrarmi l’organigramma disegnato, di proprio pugno, da una delle mie collaboratrici nel quale lei stessa era posta al vertice ed io venivo retrocesso al rango di semplice impiegato, perché, come ci tenne a riferirmi: – «Mi ha detto che lei fa tutto il lavoro e tu te ne assumi tutto il merito!» –

Naturalmente non mi bevevo tutto quanto mi diceva, anche se, magari, poteva essere in parte vero che la ragazza mirasse in alto, ma poteva darsi il caso che il furbacchione avesse fatto scrivere l’organigramma sotto dettatura e la ragazza si fosse prestata. Questo perché mi aveva spesso porto dei fogli bianchi con l’invito a stilare la mia proposta. E questa idea mi fu suggerita dall’amico Tavano che, ascoltando quanto gli dicevo, mi confessò che anche lui era stato messo a parte, in via riservatissima ed “esclusiva” dello stesso progetto di ristrutturazione.

L’unico progetto che aveva in mente quella specie di Direttore era quello di spargere zizzania tra noi impiegati amministrativi. Sul piano operativo, si ridussero le vendite ed il fatturato, provocando una nuova crisi finanziaria della Società. Come soluzione provvisoria a questa crisi, mi chiesero di sospendere e ritardare il pagamento dei fornitori per privilegiare ed assolvere al pagamento dei salari e stipendi.

Quando chiesi alla nuova Direzione di Stabilimento, quel Dott. Cappuccio, come si intendesse uscire da quella situazione di insolvibilità, questi mi assicurò che, da parte della Deutsche Ajinomoto, sarebbe arrivata una rimessa di un milione di dollari USA, al più presto.

I fornitori più grossi erano, naturalmente, quelli che ci fornivano le materie prime chimiche ed il gasolio, abituati ad essere pagati puntualmente alla scadenza da tutti i propri clienti, per cui cominciarono a sollecitarmi e a chiedere notizie, solleciti che, puntualmente, riferivo al Direttore, sia giapponese che italiano.

Questi, ad un certo punto, mi assicurò che ci avrebbe parlato lui per rassicurarli, visto che li conosceva bene tutti dalla sua precedente attività di ufficio acquisti. Non so perché ma, dopo il suo intervento, le materie prime cominciarono a ritardare le consegne, mentre qualcuno si negò completamente, rinunciando a fornire materiali, mettendo a disagio la nostra produzione.

L’Agitazione

Il Direttore Cappuccio era ritornato in fabbrica dopo un paio d’anni dal suo licenziamento, ma conosceva bene molti dei nostri sindacalisti e dei nostri operai, sapeva chi erano coloro tra i più rappresentativi ed i più carismatici. Sapeva anche della nostra “politica” di affiancamento e guida morbida dei sindacalisti. Dal suo arrivo, non faceva altro che girare per i reparti e parlare con gli operai, dicendo di voler instaurare un rapporto personale e collaborativo con loro.

C’è da precisare, anche se non c’entra niente, che lui camminava sempre con la pistola ben visibile alla cintola e tutti sapevamo, già da prima, di questa sua abitudine.

Come ho avuto modo di dire prima, del Consiglio di fabbrica faceva parte una persona non proprio affidabile e limpido nei suoi comportamenti; non era un vero sindacalista ma un politicante che era da poco diventato il Segretario del Psiup locale, quello con la grande foto di “Che” Guevara, ma lui non credo sapesse molto di “Che” Guevara, o di Sindacalismo e meno di Di Vittorio.

Si verificò anche, in concomitanza, che presso lo Stabilimento dell’ANIC, all’altro estremo di Manfredonia, si stesse vivendo una fase di agitazione del personale, ma per altri motivi. Infatti a fine settembre 1976 vi era stato uno scoppio in fabbrica con l’espulsione di diverse tonnellate di arsenico che aveva inquinato larghe zone anche del paese.

Era stata fermata la produzione, i lavoratori temevano licenziamenti o cassa integrazione e, per questo motivo, il rappresentante CISL nel nostro Consiglio di fabbrica, il Segretario Provinciale Pasquale Lauriola, fosse sempre più spesso richiesto ed impegnato presso quello stabilimento che presso il nostro, anche per il maggior numero di aderenti CISL. Ed il nostro piccolo capetto era così libero di fare nella nostra fabbrica tutti i danni che poteva, visto che il Direttore Cappuccio lo prese come unico destinatario per le proprie esternazioni.

L’inizio della vertenza aveva, come terminale della protesta, sempre e solo il sistema delle Partecipazioni Statali, che era “fuggito” via. Ci volle, da parte nostra, del bello e del buono nel cercare di convincere i nostri sindacalisti che quelli, una volta fuggiti, ormai non tornavano indietro e, quindi, tanto valeva chiedere, a chi era rimasto, ai giapponesi, cosa avessero intenzione di farne dello Stabilimento.

Quando cominciarono le prime turbolenze con i fornitori di materie prime, cominciarono a muoversi anche i sindacalisti per chiedere assicurazioni sul futuro della fabbrica. Ma i rapporti sindacali presero una piega strana, il Sindacato divenne il primo collaboratore della nuova Direzione: si arrivò a proclamare lo sciopero in fabbrica in contemporanea alla mancanza completa di una delle materie prime, per cui si sarebbe dovuto fermare comunque la produzione.

A margine della crisi con i fornitori, mi sia consentito raccontare l’episodio accaduto con i Direttori dello stabilimento dell’ANIC di Manfredonia che ci forniva soda caustica ed ammoniaca. Non era l’unico nostro fornitore di quelle materie, ma questo lo sapevano anche loro, ma in quella crisi rimase l’unico disposto a discutere sulla possibilità di fornircele.

Nella nostra sala riunioni, dopo una lunga e travagliata discussione tra i responsabili tecnici ed amministrativi dell’ANIC e l’intervento, oltre ai nostri due direttori, anche del nostro Presidente Prof. Signora, l’ANIC acconsentì alla fornitura a condizione che si provvedesse al pronto pagamento alla consegna della merce, precisando che l’autista non avrebbe scaricato una sola goccia di materiale se prima non gli fosse stato consegnato l’assegno bancario, firmato, a saldo e per l’intero ammontare.

Tutti acconsentirono tranne me che, più pratico della cosa, feci osservare che, all’arrivo in fabbrica, l’autocisterna veniva pesata una prima volta carica, poi dopo lo scarico, ripesata per determinare la tara e, quindi, calcolare il peso netto della materia prima scaricata che, moltiplicata per il prezzo unitario concordato, determinava l’esatto ammontare della fornitura.

Dopo vari tentativi per risolvere l’empasse, alla fine il Direttore Amministrativo dell’ANIC, il dott. Bifulco, mio amico personale, disse che avrebbe acconsentito allo scarico della cisterna solo quando avesse avuto la conferma telefonica, da parte mia, che avevo l’assegno bancario firmato, intestato all’ANIC ed in bianco per l’importo, da completare dopo la tara, e questa evenienza si verificò per almeno due o tre casi.

La crisi vera e propria iniziò, più o meno, a marzo del 1977 con gli scioperi, e da subito si incominciò a parlare di “occupare la fabbrica” da parte delle maestranze. Cercando di andare all’origine dell’idea di occupare la fabbrica, tutto conduceva ad uno specifico “invito” partito dal Direttore Cappuccio: non ci piaceva una soluzione del genere, ancor meno se proveniva dal Direttore di Stabilimento.

Stessa sensazione, per fortuna, venne ad alcuni più esperti sindacalisti per i quali, comunque, il Direttore era il rappresentante della proprietà e, se consigliava l’occupazione subito, agiva nell’interesse di questi, sebbene assicurasse del contrario. Dai nostri giapponesi veniva solo una formale assicurazione che stessero lavorando per noi.

Dopo gli scioperi e le Assemblee di fabbrica, si ricorse ad altre manifestazioni, anche esterne al recinto dello stabilimento, per coinvolgere e far intervenire le autorità amministrative e gli uomini politici e tutti, a parole, ci assicurarono la propria solidarietà ed il proprio fattivo interessamento.

Parlando tra noi, quelli che eravamo le figure apicali, i quadri dello stabilimento, unanimemente, scegliemmo che saremmo rimasti al fianco delle maestranze. Questo per vari motivi personali e magari diversi dall’uno all’altro, ma tutti eravamo convinti che la fabbrica potesse salvarsi e rimanere aperta, magari passando di proprietà, perché, come struttura aziendale, la ritenevamo valida ed in grado di produrre utili.

Cap. VIII – LA FINE

L’occupazione di fabbrica

Esaurite tutte le iniziative di lotta e di richiamo, dopo una intera settimana di sciopero, la sera del 31 maggio 1977, iniziò la vera occupazione di fabbrica, mentre, già giorni prima, i giapponesi erano spariti dalla circolazione, e non solo dalla fabbrica, ma anche dalla proprie abitazioni e da Manfredonia.

E’ inutile precisare che, avendo iniziato l’occupazione di fabbrica alla fine del mese, con gli stipendi che venivano pagati i primi giorni del mese successivo, non facemmo in tempo a percepire la retribuzione.

La sera stessa, insieme ad alcuni dei sindacalisti, compilammo un duro comunicato stampa per annunciare la decisione dell’occupazione, venuta a seguito di una vertenza sindacale in cui il datore di lavoro si era dimostrato quanto mai agnostico e già, praticamente, non vincolato a quelli che dovevano essere gli obblighi e le responsabilità verso le maestranze e verso lo Stato italiano che aveva largamente contribuito finanziariamente alla costruzione dello Stabilimento.

Il testo del comunicato lo trasmettemmo, via telescrivente, a tutte le agenzie di stampa, alle principali testate giornalistiche, al Ministero delle Partecipazioni Statali ed a quello del Lavoro e ad altri vari ministeri, più al Sottosegretario agli Interni che era l’On. Vincenzo Russo.

L’indomani, anche se solo con un piccolo trafiletto, eravamo citati da tutti i più importati quotidiani, escluso “La Gazzetta del Mezzogiorno” di Bari, che pubblicò, il terzo giorno successivo, un breve articolo sulla pagina della redazione foggiana, solo dopo che l’avevamo tempestata di numerosi telex e di telefonate, a firma ed a nome dei responsabili provinciali dei Sindacati. E, per i primi giorni, non avvenne niente altro.

Così la prima domenica successiva, il 5 giugno, uscimmo dalla fabbrica e bloccammo l’unica strada statale che conduceva a Manfredonia e al Gargano, ritardando il traffico dei primi bagnanti e dei turisti che si recavano alle spiagge di Siponto e sul Gargano stesso, allo scopo di “illustrare”, con ampi particolari, le ragioni della protesta a ciascun automobilista. A sera altro comunicato stampa via telex per informare dell’azione e delle reazioni di simpatia degli automobilisti bloccati.

Solo in questo modo avemmo l’onore di una visita del corrispondente da Manfredonia della “Gazzetta” di Bari, mentre tutti gli altri quotidiani cominciarono ad interessarsi a noi più estesamente. Ed incominciarono ad interessarsi anche gli uomini politici e gli amministratori locali con, in prima linea, il Sindaco comunista, Senatore Michele Magno.

Erano, invece, seriamente preoccupate le autorità preposte all’ordine pubblico. Prima come ufficio paghe, poi come Capo Contabile ed infine come Responsabile Amministrativo, avevo sempre avuto un rapporto privilegiato con Carabinieri e Commissariato.

In tutte le manifestazioni di protesta esterne alla fabbrica, avevamo sempre al fianco le forze dell’ordine pubblico che, in un certo senso, proteggevano le nostre manifestazioni. Non accadde mai niente di particolare, anche perché il paese era piccolo e si viveva in ambiente familiare: anche quando andammo a piedi ad occupare il Municipio di Manfredonia, era evidente che tutti gli impiegati ci aspettavano e sapevano del nostro imminente arrivo.

Fu invece una vera sorpresa per tutti quando, quasi tutto il personale uscì dallo stabilimento e si sparse sulla strada per Zapponeta, fermandosi al passaggio al livello, sedendosi sui binari del treno, bloccando quindi sia la linea ferroviaria Manfredonia-Foggia che la strada provinciale litoranea.

Per una causa di lavoro seguita al licenziamento di un dipendente, il Pretore di Manfredonia, il Dott. Cappabianca, aveva tenuto, qualche tempo prima, alcune udienze di quella causa direttamente nella nostra fabbrica, anche per effettuare un personale sopralluogo ad alcuni ambienti di lavoro, ed in quella occasione avevo avuto modo di conoscerlo e parlare con lui anche al di fuori della sua funzione, avendo voluto farsi illustrare da me il funzionamento del nostro computer.

La causa si concluse con l’approvazione del licenziamento “per eccessiva morbilità” del lavoratore, fu pubblicata nel Massimario di Giurisprudenza, ebbe molta eco in tutti gli ambienti legali e aziendali del territorio nazionale, essendo la prima del genere dopo lo Statuto dei Lavoratori.

Il Sig. Pretore, preoccupato per l’ordine pubblico, ci fece pervenire un informale ed amichevole invito per essere informato, da Tavano e da me, sulla situazione all’interno della fabbrica. L’incontro l’avemmo, in maniera riservatissima, di sera, nell’ufficio personale della Pretura, alla presenza del comune amico avvocato, e Pretore Onorario, che aveva fatto da emissario.

Intanto, per conto mio, avevo continuato a tenere i contatti telefonici con l’Ufficio di Milano, finché cominciai a telefonare, la sera sul tardi, a casa del Dott. Yadama, chiacchierando con lui con la scusa di voler raccontare cosa accadeva in fabbrica, ma con lo scopo di carpire notizie sulle intenzioni dei giapponesi.

Le telefonate partivano dalla saletta della centralina SIP nella palazzina uffici, anche se subito, pochi giorni dopo l’inizio dell’occupazione, tutte le linee telefoniche erano state disattivate. Fu disattivata anche la telescrivente ma, colui che vi aveva provveduto, non pensò di dover disattivare anche la relativa linea telefonica utilizzata per la telescrivente, che aveva ancora un apparecchio telefonico di servizio funzionante nella centralina SIP.

Già durante l’attività normale, la stanza era sempre chiusa a chiave e così restò durante l’occupazione. Per questo motivo, facevo le telefonate con l’assenso di una buona parte dei membri del cosiddetto “Comitato sindacale per l’occupazione di fabbrica”.

Infatti, quando incominciarono le lotte e le azioni di protesta, era chiaro a tutti che non si poteva lasciare la guida e l’iniziativa solo nelle mani dei membri del Consiglio in carica, anche perché, oltre ad un paio di bravi sindacalisti, c’era sempre quel capetto inaffidabile e qualche ignavo che, spesso, da quello si faceva convincere e, con la scusa della maggioranza democratica, faceva pendere dalla sua parte la bilancia, per cui si integrò il Consiglio di Fabbrica con altri membri, tutti che avevano già fatto parte di altri Consigli di Fabbrica, creando appunto questo “Comitato”.

Intanto, ciascuno per conto proprio, ognuno di noi si dava da fare con le proprie conoscenze. Il capo della produzione, chimico, cercava altri sbocchi, altre realtà che potessero esser interessate alla nostra fabbrica. Il gruppo dei chimici, anzi, cercò di salvare il “ceppo” dei batteri che dava origine alla fermentazione, ma fallirono lo scopo, forse perché non conoscevano le specifiche per mantenerlo in vita.

Io tenevo in ufficio le chiavi della cassaforte nella quale c’erano dei documenti originali relativi a licenze e concessioni che chiusi nel caveau, insieme ai documenti della cassetta di sicurezza nella quale erano conservati i libretti al portatore con i famosi “fondi neri”, che non si toccavano da parecchio tempo e che, comunque, erano diventati una somma cospicua ma non risolutiva per le finanze aziendali, al massimo avrebbero consentivo di versare i contributi e le ritenute di una mensilità di stipendio.

Non c’era pericolo, anche se le maestranze “occupavano” effettivamente la palazzina degli uffici amministrativi, bivaccando dappertutto, ma, ad ogni buon conto, portai le chiavi a casa mia.

Il collega Tavano ebbe, ad un certo punto, un “suggerimento” da parte dell’amico avvocato che aveva fatto da emissario con il Pretore. Considerato che la Direzione e la proprietà erano latitanti, i dipendenti potevano chiedere il sequestro conservativo dello stabilimento a salvaguardia delle retribuzioni non ancora pagate e dell’indennità di licenziamento maturato, magari con la procedura di urgenza ex art.700 del C.p.p., e “sicuramente” il Pretore avrebbe dato parere favorevole alla procedura d’urgenza ed al sequestro conservativo. L’unica condizione era che avessero aderito al ricorso un buon numero di dipendenti, anche se in minoranza.

Il ricorso fu presentato, firmato subito da quasi tutti gli impiegati e da un buon numero di operai, mentre si tentava di convincere altri operai a firmare.

A questo punto vennero fuori le brutture di tutto l’ambiente e venne a galla il fango che stava nel fondo. Uscì fuori quel partito che si era venduto al nuovo Direttore e cercava di imporre tutti i suggerimenti che questi faceva, ma che ebbe una reazione scomposta alla notizia del ricorso al Pretore.

Forse, immagino io, quel Direttore con la pistola sempre al fianco, disse che bisognava “evitare” che altri firmassero, magari lo disse arrabbiato e con il suo accento siciliano, essendo nativo di Milazzo ma che, provenendo da Terni, quando non era arrabbiato, parlava un umbro-romanesco. In ogni caso, per evitare che altri firmassero, si ricorse anche a mezzi non leciti, volendo usare un eufemismo.

Nel frattempo, poiché la vita, in ogni situazione, prosegue il suo corso, avvenne in casa mia un nuovo lieto evento e, quindi, fui esonerato dal Comitato a continuare l’occupazione di fabbrica, dovendo assistere mia moglie e gli altri miei due figli.

Al mio ritorno in fabbrica, dopo una diecina di giorni, i colleghi mi aggiornarono sugli ultimi avvenimenti e cioè che il Pretore aveva accolto il nostro ricorso e convocato le parti fra trenta giorni, sequestrando nel frattempo la fabbrica; che il giorno dell’udienza, un gruppo di “bravi” operai, nel senso manzoniano del termine, si posero a guardia dell’ingresso della Pretura con l’intento di scoraggiare coloro che, convinti all’ultimo minuto, stavano andando a firmare il ricorso direttamente nelle mani del Pretore, nonché gli stessi impiegati promotori.

Mi raccontarono anche che, durante la mia assenza, un gruppo di chimici italiani ed inglesi, messisi in contatto con il nostro capo della produzione, chiesero di visitare la fabbrica.

E vennero in incognito gli inviati della ICI inglese, un grande colosso chimico multinazionale. Purtroppo, iniziata da tempo, c’era, in tutta l’Italia ed in certi ambienti, una grande diffidenza e un vero rigetto verso le “multinazionali” che era diventato un termine dispregiativo ed offensivo, perché sinonimo di affamatori di popolo, di voraci imperialisti, di sfruttatori del povero operaio.

La visita fu, per questo, quanto mai rapida, tuttavia emissari del colosso chimico presero i primi contatti con i giapponesi, a Milano, e i miei colleghi conoscevano anche la data, molto prossima, del primo incontro programmato.

Ma i colleghi mi raccontarono anche che si era ormai spaccato il fronte degli occupanti la fabbrica: da una parte v’erano gli impiegati e uno sparuto gruppo di operai che si fidavano delle parole e dei pareri di costoro; dall’altra parte v’erano il gruppo dei fedelissimi di quel capetto psiuppino che faceva da terminale del direttore Cappuccio; al centro la maggioranza degli operai che attendeva solo una soluzione positiva della vicenda.

C’era anche un altro partito, ed era quello che aveva ripreso a lavorare con il vecchio suo mestiere o lo aveva sviluppato, allo scopo di portare soldi in casa, e questi, non facendosi vedere punto in fabbrica, erano bersaglio di epiteti e ingiurie da parte di tutti.

La cosa più grave comunque, fu apprendere che erano iniziate le telefonate minatorie al domicilio degli impiegati forestieri e le telefonate calunniose alle mogli di qualcuno, sempre impiegati.

Poiché tra i così detti “contrari” c’erano operai che mi avevano sempre rispettato, cercai l’occasione e mi andai a sedere in mezzo a loro, cercando di farli parlare. In un certo senso, interrogare e far parlare la gente è sempre stato il mio lavoro, e ci riesco sempre bene, loro lo sapevano e tentarono di eludere le mie pressanti domande, sfuggendo anche il mio sguardo, e uno tentò anche di dissuadermi parlando il linguaggio gergale dei camorristi che io feci finta di capire.

Alla fine, ebbi la certezza e la conferma, sebbene non espressa, che effettivamente il capetto era manovrato da qualcuno che gli raccomandava di stare calmi, che le cose si sarebbero aggiustate in favore degli operai, e così via.

Sapendo che quella non era gente che si muoveva per niente, chiesi loro cosa ci guadagnassero nella cosa, ma loro non mi rispondevano, allora chiesi cosa ci avesse guadagnato il capetto e qui le risposte, evasive, cambiarono, finché, seguendo lo sguardo di un paio di loro, scorsi lontano, in fondo alla fabbrica, un paio di operai che, vicino ad una manichetta dell’acqua, stavano lavando una macchina, l’auto aziendale, una Fiat 127, che serviva per andare in paese per la posta o in banca e capii che quella era il guiderdone per il capetto.

Mollai il gruppo con l’ultima frecciata:

– «Ragazzi! Mi avete deluso! Quello si è già fatto pagare, mentre voi vi accontentate delle chiacchiere!» –

Ci chiamò a Foggia l’Onorevole Vincenzo Russo che, in un brevissimo colloquio, tra la confusione dei suoi numerosissimi clienti e sostenitori, ci disse che aveva subito trovato sulla scrivania a Roma il nostro telex con l’invito ad interessarsi; ci rimproverò perché non avevamo contattato la sua Segreteria a Foggia; ci informò che aveva investito del nostro caso una grossa multinazionale inglese che era interessata, molto interessata, al nostro Stabilimento; ci assicurò che, in breve tempo la questione si sarebbe risolta positivamente; ci avvisò che il Sindaco Magno, strepitando e gridando, faceva solo chiasso e nient’altro.

Ripresi anche i contatti con gli amici funzionari di banca, apprendendo che i conti correnti in rosso ed i conti relativi alle anticipazioni all’esportazione, erano stati chiusi e saldati tramite The Bank of Tokyo di Milano. Era quindi arrivato il milione di dollari e il Rag. Fraschetti aveva provveduto direttamente da Milano a gestirlo.

Ma uno di questi funzionari bancari mi disse anche che era stato contattato dagli emissari della ICI inglese, alla ricerca di informazioni, o meglio di assicurazioni, sulla nostra passata vita produttiva e commerciale.

Questo funzionario, naturalmente in maniera molto riservata, promise di tenermi informato sulle trattative tra ICI ed i nostri giapponesi, promessa mantenuta, quando mi raccontò dell’andamento deludente e negativo dell’incontro.

Stanco di menar il can per l’aia, in una telefonata notturna con Yamada posi la domanda precisa sull’andamento delle trattative, ma quello mi rispose che non ne sapeva niente in quanto non era suo compito: -«It’s not my job!» –

Era una colossale bugia perché la sua presenza, al fianco dell’Amministratore Delegato, era normale e costante, altrimenti non si capiva cosa fosse tornato a fare. Mi arrabbiai e ne uscii:

– «Yamada-San! Non è suo compito solo perché non può vendere qualcosa che non ha! Adesso la fabbrica è sequestrata!» –

Questa frase fece arrabbiare Yamada che capì come io fossi informato della cosa e non gli avessi detto niente prima, come lui si aspettava, si rese conto insomma che, se io gli telefonavo, non era per informare lui, ma per essere informato io. A questo punto disse, in maniera piuttosto concitata, che la nostra scelta di chiedere il sequestro della fabbrica era stata una mossa sbagliata, e che eravamo stati consigliati male:

– «Chi ha consigliato voi di questo?» – chiese in italiano.

– «Non c’era bisogno di consiglieri!» – risposi io. – «E’ qualcosa che si fa sempre in questi casi. Ogni sindacalista lo sa! Anche il Dott. Cappuccio lo sa! E’ avvocato, deve saperlo! O no?» –

– «No! Lui non sapeva questo! Lui non ha previsto! Per questo ha pagato ed è stato “allontanato”» – pensai che avesse usato questo termine al posto di “cacciato via”.

Poi continuò: – «Dopo io ho studiato!» – era il suo solito modo per dire che aveva approfondito la cosa. – «Moltissimi casi simili e mai, mai è avvenuto questo ricorso al Giudice. Anyway, questa vostra scelta farà ritardare la soluzione del caso!» –

– «Quale soluzione? Di quale soluzione parla?» – chiesi subito, ma rimase in silenzio e la conversazione finì così.

Questa fu anche l’ultima delle mie telefonate solitarie fatte dal centralino e nelle ore della tarda serata, perché, durante la telefonata, notavo attraverso i vetri martellati, che, nel corridoio qualcuno andava avanti ed indietro. Quando terminai, il corridoio era pieno di fumo di sigarette, ma non c’era più nessuno.

Pensai che fosse qualcuno che avesse lo scopo di ascoltare la mia conversazione, ma di questo non me ne preoccupavo perché, per la maggior parte, avevo parlato in inglese. Solo dopo qualche tempo, un amico mi rivelò il nome della persona, confessandomi che gli aveva dato l’incarico di proteggere la mia incolumità: ma quella persona era anche uno dei guardaspalle del capetto.

Intanto, il nostro amico chimico, ex capo della produzione, manteneva i contatti con i tecnici della ICI inglese che, tuttavia, non ci fecero sapere, in un primo momento, il risultato dell’incontro avuto con i giapponesi, anche se avevamo saputo che non era stato positivo. Quando, finalmente, ristabilì i contatti gli dissero soltanto:

– «Non c’è stata alcuna trattativa! Non può esserci trattativa con qualcuno che non vuole vendere! Perché chi vuole vendere, di norma, mostra la propria mercanzia! O no?» –

Il pesce surgelato.

Si avvicinava il termine dei trenta giorni fissati dal Pretore per l’udienza. In fabbrica si continuavano a tenere lunghe e affollate assemblee nel locale della mensa, con la partecipazione dei vari sindacalisti provinciali e regionali e qualche uomo politico locale; c’era stato l’ordine del giorno del Consiglio Comunale di Manfredonia.

Durante una di queste assemblee di fabbrica, arrivò improvvisamente la voce che i giapponesi stavano trattando con una società che voleva comprare lo stabilimento. La voce fu subito accolta con gioia ed enfasi da qualcuno, mentre quel tipo del Consiglio di Fabbrica, quel sindacalista psiuppino, era il più informato della cosa ed il depositario e terminale delle notizie che riguardavano tutti noi, ed era sempre circondato dai suoi bravi sostenitori.

Finalmente, sempre dal solito bene informato, si venne a sapere che lo stabilimento sarebbe stato acquistato da una Società romana per farne una fabbrica di surgelati, e si seppe anche il nome di questa società.

Il giorno dell’udienza la proprietà giapponese, tramite il proprio avvocato, un luminare milanese di alto grido sceso, bontà sua, fino a Manfredonia, rese ufficiale questa notizia, affermò che le trattative erano a buon punto, che a breve termine si sarebbe valutata l’offerta ed il piano industriale di investimento e produzione che, secondo le condizioni dettate dai giapponesi, doveva prevedere il pieno impiego di tutta la manodopera.

Il Pretore non poté fare a meno che prendere atto dell’offerta e, auspicando una sollecita conclusione della vertenza, rigettò il ricorso e annullò il sequestro conservativo. Il Sindaco Magno prese l’impegno che avrebbe seguito personalmente, al fianco dei sindacalisti, le trattative ed il piano industriale.

Infatti, dopo qualche giorno, si fissò l’incontro a Bari, presso la sede della Regione Puglia, e si invitarono assessori regionali, provinciali e comunali, sindaci e sindacalisti, mancavano solo le autorità religiose e militari e la banda municipale.

Non appena saputo il nome della Società, chiesi al mio amico funzionario di banca di fornirmi informazioni sulla stessa ed il Bilancio, se l’avesse depositato, come di norma si faceva e si fa. Non c’era ancora il fax, ed il Bilancio e tutte le informazioni mi furono spedite con plico postale a casa mia.

In attesa dell’incontro e del bilancio, parlando tra di noi impiegati, si considerava che, normalmente, qualsiasi industriale che sta per investire i suoi soldi in una nuova iniziativa, preferisce mostrarsi in casa propria, cioè presso l’associazione degli industriali, oppure in un salone d’albergo a pagamento, a proprie spese: questa esposizione in un luogo politico e istituzionale, ci suonava come una mossa esclusivamente politica, con altri fini anziché quello di investire.

Lo stesso giorno dell’incontro a Bari, arrivò a casa mia il plico con il Bilancio della Società “Generale Investimenti” romana.

Era stata fondata ad ottobre del 1976 con un capitale sociale di 200 milioni di lire e, come prima operazione, aveva effettuato un “investimento” di 90 milioni per l’acquisto di un “appartamento” a Roma, a Via dei Parioli, il cui valore, all’epoca e in quella strada, poteva riferirsi ad un abbaino o un sottoscala.

Al pomeriggio, ritornarono da Bari i nostri sindacalisti con il piano industriale di investimento e ristrutturazione dello stabilimento ai fini della trasformazione nella produzione di alimenti surgelati, con prevalenza del pesce e, tra questo, specificatamente del pesce azzurro.

Il “piano” era un dattiloscritto di circa duecento pagine, dove le prime trenta pagine raccontavano la vicenda della fabbrica; in circa cento pagine era spiegato come ristrutturare il locale “mensa” per farne aule destinate alla formazione di tutto il personale; circa cinquanta pagine spiegavano i programmi di studio per la riqualificazione (o dequalificazione?) degli operai.

Le ultime venti-venticinque pagine raccontavano come si surgela il pesce azzurro, come si sarebbe venduto tale “prodotto”, come si sarebbe proceduto alla “trasformazione” dei reparti produttivi, mentre i “servizi generali” esistenti, sarebbero stati utilizzati dalla nuova produzione. Nessun “business plan” che spiegasse costi, ricavi, investimenti e capacità produttiva.

All’epoca, e da parecchi mesi, ispirata da qualche “santone” che voleva risolvere “tutti” i problemi dell’economia italiana, quasi tutti i giorni si leggeva sulla stampa della bontà del pesce azzurro su tutto il resto del pescato, dei suoi contenuti proteici, del costo molto ridotto e del fatto che fosse una vera “ricchezza” dei nostri mari: tutte cose vere e condivisibili.

Ma, ad oggi, non ho notizia che, in qualche parte del mondo, vi sia, o vi sia mai stata, una fabbrica per surgelare il pesce azzurro, anche se puntualmente, e ricorrentemente, ritorna sulla stampa, specie in estate, l’idea di valorizzare il pesce azzurro.

La “soluzione”

Dopo l’incontro a Bari, alla Regione Puglia, tutti i sindacalisti ed il Sindaco di Manfredonia considerarono la nostra vicenda praticamente conclusa e con esito positivo.

Anche il corrispondente locale de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, che ancora non firmava col proprio nome, non essendo iscritto all’Ordine dei Giornalisti, che fino ad allora non si era mai dimostrato “schierato” a fianco dei lavoratori, strombazzava ogni giorno la felice risoluzione della nostra vicenda, citando sempre, con nome e cognome, il “nostro benefattore”, l’acquirente che aveva presentato al Sindaco il famigerato “Piano”.

Non così la pensavano tutti i dipendenti, men che meno noi impiegati che avevamo sviscerato il Bilancio della Società acquirente, che avevamo studiato il cosiddetto “Piano” industriale, non trovandoci niente di veramente industriale.

A questo punto le Assemblee di fabbrica, nel locale della mensa aziendale, divennero un vero e proprio happening-show, con il capetto che, ormai apertamente, invitava gli indecisi a schierarsi al suo fianco per avere un sicuro posto di lavoro nella “nuova” fabbrica di surgelati e, quel che più conta, trovando proseliti.

Purtroppo, alle nostre titubanze ed ai nostri dubbi, qualcuno della controparte, ispirato o suggerito dall’ineffabile neo-sindacalista, se ne uscì con una battuta:

– «Gli impiegati non accettano questa Società perché, a loro, sarà destinata la mansione di “tagliare la testa dei pesci da surgelare” e non la gradiscono!» –

Purtroppo, ripeto, questa battuta, e non riesco a spiegarmi ancora oggi il perché, fu in un certo senso accettata come “credibile” da parte di molti dei nostri operai.

Quando qualcuno degli impiegati predicava che non c’erano effettive garanzie sulla prosecuzione dell’attività dell’azienda, che non c’erano precise assicurazioni sul mantenimento del livello occupazionale, quando si diceva che il nostro stabilimento era tecnologicamente avanzato e che, per la surgelazione, nessun macchinario esistente sarebbe stato utilizzato, mentre, anche gli impianti dei “servizi”, erano sovradimensionati rispetto alle esigenze, ad un certo punto, c’era sempre qualcuno che se ne usciva con quella battuta, diventata un vero tormentone, e la conversazione finiva, tra sberleffi e ammiccamenti.

A nessuno veniva in mente che gli impiegati erano gente laureata e diplomata, tutti con una esperienza qualificante che nessuno mai avrebbe tentato di umiliare, neanche per soddisfare il livore e l’odio di qualche “mosca cocchiera”, ignorante e presuntuosa.

Approfittando sempre della mia “confidenza” con i miei amici operai, io cercavo di colloquiare con loro, mentre, il più delle volte, erano loro stessi che mi cercavano per discorrere, per essere rassicurati sulla soluzione che si prospettava e che io ritenevo assolutamente improponibile.

Un giorno, mi fu chiesto se fossi disponibile a parlare con i membri del Comitato per fornire alcune spiegazioni ed esprimere il mio punto di vista. Accettai e mi presentai al Comitato riunito al completo, con qualche membro in più, nel senso che era stato ammesso a parteciparvi qualcuno di quelli che “urlavano” di più e più forte nelle Assemblee.

Le prime domande mi furono poste dall’amico Collicelli, con il quale avevo un colloquio continuo e sempre aperto e franco, per cui iniziai ben disposto e tentai di spiegare tutto quello che pensavo della “nuova” fabbrica ma, soprattutto, soffermandomi a demolire il cosiddetto “Piano di investimento e industrializzazione” nonché il Bilancio della nuova Società.

Conoscevo perfettamente, e da lungo tempo, tutti i presenti, e mi ritenevo in grado di valutare esattamente le potenzialità di apprendimento ed espressione di ciascuno di loro, per cui, quando qualcuno mi rivolse delle domande con parole che non potevano far parte del proprio lessico, cominciai ad innervosirmi e sempre più, anziché rispondere con calma, attaccavo e sentenziavo, finché mi alzai e me ne andai, non prima di aver detto: – «Ero venuto per spiegare il mio pensiero, non per essere giudicato da voi! Qui dentro, non c’è nessuno all’altezza di poter giudicare se quel che dico è vero o falso. E poi, non me ne frega niente di convincere qualcuno! Vedo che non avete capito: la Fabbrica è morta e noi siamo tutti disoccupati! Perciò, “si salvi chi può”, ognuno si cerchi un posto di lavoro per conto proprio!» –

In pratica, feci un sol fascio di amici e nemici e di questo mi pentii subito, anche se, per il resto della vicenda, mantenni il mio atteggiamento di indipendenza. Solo dopo qualche tempo realizzai che era stato troppo facile, per i miei nemici, farmi tacere innervosendomi.

Tuttavia non potei fare a meno di continuare il mio colloquio con quelli che erano gli amici operai più sinceri. Loro mi assicuravano che, in ogni caso, avrebbero vegliato sulle reali intenzioni dell’acquirente, ponendo precise e rassicuranti condizioni all’ingresso in fabbrica del “nuovo” padrone. I colleghi impiegati, invece, parlavano delle aziende potenzialmente interessate a rilevare la fabbrica per la produzione di nuovi prodotti dietetici.

Poi, per motivi di necessità famigliare, dovetti abbandonare per un lungo periodo l’occupazione di fabbrica per assistere la mia famiglia e, addirittura, mi trasferii in un altro paese per essere vicino all’Ospedale in cui avevo ricoverata la nuova nata. La lontananza mi consentì di riflettere su tutta la vicenda e, nello stesso tempo, di rivedere il tutto con occhio esterno.

Ritornai in fabbrica dopo quasi un mese e, ritornando a parlare con i colleghi impiegati e con gli amici operai, mi accorsi che tutti, ma proprio tutti, ripetevano le stesse cose, gli stessi concetti che avevo ascoltato prima di andar via, ed a volte con le stesse parole e con le stesse frasi.

Ne rimasi scioccato e turbato, trovandoci ulteriori motivi di riflessione per cercare di capire le ragioni di questo che mi sembrò subito un vero stato di ”alienazione mentale”, preoccupante, se non avessi conosciuto quelle stesse persone prima della causa.

Ero tornato anche perché convocato per telegramma dalla Direzione, per prendere servizio dopo il Ferragosto e la cosa che mi colpì fu che, una volta terminata la occupazione di fabbrica, sotto gli ordini e le disposizioni del “capetto”, la palazzina uffici era stata sgomberata ed un gruppo di operai stava provvedendo alle “pulizie” nelle varie stanze.

Per un motivo di ritegno o di pudore non ne parlai a tutti del telegramma, ma solo ad un mio caro e valido collaboratore che, da parte sua, mi informò di essere stato convocato anche lui insieme a qualcun altro che mi indicò.

Ed infatti, il giorno stabilito, rientrai in fabbrica accolto dal Rag. Fraschetti che, da parte sua, aveva già fatto intervenire l’impresa per la pulizia e la disinfestazione dei locali e dei servizi igienici.

– «L’altro giorno ci ha pensato il vostro “collaboratore”, con tutto il suo entourage di “bravi” supporters!» – dissi a Fraschetti, con la mia solita diplomazia da elefante. Non volli farmi mancare la battuta, anche per saggiare il rapporto tra lui e quel capetto che, sapevo, non era molto ben visto e considerato dal bravo anziano Ragioniere. Lui mosse solo una spalla, senza parlare.

Fraschetti mi comunicò che aveva ormai la firma sociale per le operazioni bancarie, che nostro compito era quello di aggiornare le scritture contabili con le operazioni che lui aveva effettuato direttamente dall’ufficio di Milano di cui ci consegnò gli appunti. Aveva incassato il finanziamento dalla Deutsche Ajinomoto di Amburgo ed aveva provveduto a chiudere i conti di anticipazione ed i conti bancari in passivo; aveva pagato quei fornitori che avevano intrapreso azioni legali.

Io avrei dovuto pagare tutti gli altri fornitori in attesa, nonché gli stipendi ed i salari del mese di maggio rimasti in sospeso di tutto il personale, e poi, di seguito, quelli di giugno, luglio e agosto, ma questi ultimi solo ai pochi richiamati in servizio.

Il richiamo in fabbrica aveva interessato tutto l’Ufficio della contabilità e paghe e qualche impiegato tecnico per la messa in sicurezza degli impianti. Rimasero fuori alcuni impiegati amministrativi, e quasi tutti i tecnici: si creò un nuovo partito, odiato ed ingiuriato da questi colleghi rimasti fuori.

Quando qualcuno dei miei collaboratori, specie le ragazze, mi chiedeva le ragioni di questo odio e avversione nei nostri confronti, io raccontavo loro dello choc provato ascoltando, dopo circa un mese, le stesse parole da gente che amavo e stimavo.

Spiegavo il tutto con il fatto che, con l’inedia, con il pensiero fisso rivolto sempre e solo verso qualcosa che non si può controllare o modificare, si crea una specie di alienazione mentale o, comunque, uno stadio di disagio che non permette di ragionare sulle cose e vederle nel loro giusto angolo visuale.

– «Del resto,» – facevo notare: – «provate a mettervi nei panni di un capo famiglia che, tutti i giorni, ritorna a casa e sa che i suoi cari aspettano da lui una parola di speranza, una notizia che lui non può dare! Poi deve raccontare che alcuni sono stati richiamati in servizio! Che questi riceveranno lo stipendio e lui no! Vallo a spiegare alla moglie che deve fare la spesa, che quelli fanno un lavoro diverso dal suo!» –

Terminai tutti i compiti affidatimi, mentre, in contemporanea mi detti da fare per trovare altri sbocchi occupazionali, avendo occasione di vagliare molte offerte, in attesa che arrivassero a buon fine le promesse fattemi dagli amici del Gruppo EFIM.

In pratica, la gran parte del tempo, in quei ultimi giorni di “servizio” presso l’Ajinomoto, la trascorsi occupandomi di scrivere e rispondere agli annunci economici dei giornali per la ricerca di personale, in compagnia di qualche altro collega, forestiero, anche perché, dopo aver pagato i fornitori ed aver aggiornato la contabilità, non c’era molto altro da fare, se non gestire il personale in servizio, ma in maniera molto blanda.

Infatti, un sabato pomeriggio, dopo aver convocato tutto il personale in servizio, venne di corsa il Rag. Fraschetti a Manfredonia per prendere le consegne e salutarmi con una breve cerimonia di saluto. Quando comunicò ai presenti che, d’ora in poi, con le mie dimissioni, il responsabile di stabilimento diventava il mio sostituto, quella delle ragazze che aspirava al mio posto, se ne uscì, ad alta voce:

– «Ah! Perché, era lui fino ad ora il Responsabile?» –

Al buon Fraschetti consegnai anche le chiavi della cassaforte, il cui contenuto era esattamente quello che lui ci aveva lasciato qualche tempo prima, più tutti i libri e registri contabili vidimati, e questo avvenne il 7 novembre 1977, mentre si discuteva ancora, in tutte le sedi, di quello che doveva essere il futuro della fabbrica sul quale, però, non ho niente da dire perché avvenuto appunto dopo la mia uscita e, quindi, dovrei basarmi su notizie riferitemi da altri, molto spesso inesatte e contrastanti tra loro.

Con l’Avvocato acquirente della fabbrica non ho mai avuto a che fare, almeno fino a pochi anni fa, ma per altri interessi e per altri miei impegni di lavoro.

Le considerazioni

La “fuga” dei giapponesi è stata una sconfitta! Una sconfitta per le maestranze che, anziché restare unite, si sono comportati, né più né meno, che come i galli di Renzo, beccandosi tra loro. E tra i galli mi ci metto anch’io. E’ stata una sconfitta per il Sindacato, che ha perso una buona fonte di occupazione per le maestranze perché hanno lasciato a combattere, tutto solo, il Segretario Provinciale CISL, concentrandosi tutti per la conquista di proseliti all’interno dell’ANIC, anch’essa industria chimica, poi diventata ENICHEM.

E’ stata una sconfitta per il paese, anche se non si può scaricare la responsabilità ad alcuno: il Sindaco e tutti i politici, avevano poco da fare per far recedere dalla decisione i giapponesi. Solo un appunto si potrebbe fare al Sindaco, perché sia lui sia i suoi collaboratori, assunsero come referente unico il sindacalista della CGIL, il “compare” del Direttore, ma tutto ciò era nell’ordine delle cose e non poteva essere altrimenti.

E’ stata una sonora sconfitta per le Partecipazioni Statali che si sono completamente disinteressati della fabbrica ma, e non può essere una scusante, c’è da precisare che un po’ tutte le fabbrichette delle P.S., in quel periodo, facevano la stessa fine.

Durante il mio ultimo periodo di lavoro in fabbrica, venni per caso a sapere che, da parte di qualcuno, forse il Segretario CISL Pasquale Lauriola, era stata avanzata l’ipotesi di un “acquisto” della fabbrica da parte della ENICHEM, il ché, alla luce di quanto avvenuto in seguito, sarebbe stata la soluzione migliore per tutti, compreso la fabbrica ENI, visto la fine ingloriosa riservata poi alla stessa. Una possibilità di sviluppo e sopravvivenza poteva essere quella di sviluppare i brevetti e le scoperte giapponesi in area chimica, come è poi stato fatto in Francia.

Ma una trattativa del genere non poteva essere avanzata a Manfredonia e dai nostri sindacalisti, anche perché ogni valutazione in loco si basava sulla “dimensione” o, per meglio dire, sul diverso ingombro apparente delle due fabbriche.

Volendo confrontare invece le due realtà, bisogna considerare che la “piccola”, l’Ajinomoto, era una proprietà privata e quindi ridotta all’essenziale e nascondeva i suoi gioielli agli sguardi esterni, anche se, con la sua modularità, prevedeva a priori le possibilità di ingrandimento. Mentre l’ANIC, proseguendo nella politica iniziata da Enrico Mattei, doveva essenzialmente soddisfare una esigenza “politica” e quindi essere ampia, mastodontica e “visibile”, anche di notte. Il “privato” occupava il giusto numero di addetti, il “politico” largheggiava e scialava.

L’ANIC o ENICHEM, già all’atto della sua costruzione, era uno stabilimento senza futuro in quanto si sapeva che quelle produzioni era meglio ubicarle nei paesi del terzo mondo, cosa che, infatti, l’ENI incominciò a fare subito dopo averne ultimata la costruzione a Manfredonia. Ma, tutto questo, ormai, rimane un discorso meramente accademico.

A questo proposito, mi viene a mente l’incontro avuto con un grande e “vecchio” Agente marittimo di Bari. Per l’importazione di uno degli ultimi “lotti” di melasso di barbabietola francese, ci appoggiammo, per le pratiche doganali, ad uno dei più grandi e antichi Agenti Marittimi baresi presso il quale portai io stesso i documenti per la regolarizzazione, dopo averli fatti firmare a Barletta dal dott. Cipiani.

Mentre attendevo che si completassero gli adempimenti e la documentazione, i due titolari dell’Agenzia, padre e figlio, per intrattenermi, vollero presentarmi il proprio anziano genitore e nonno, ultranovantenne, già figlio del fondatore dell’Agenzia e della dinastia. Fui presentato come “il Direttore della Fabbrica giapponese di Manfredonia” e la mia provenienza entusiasmò il vegliardo, che volle informarmi come lui amasse particolarmente Manfredonia per averla visitata, per la prima volta, in tenera età insieme al genitore che, in seguito, non mancava di riportarlo ogni volta che ne aveva l’occasione per lavoro.

Poi mi disse: – «Mio padre mi diceva sempre che se Manfredonia avesse il Porto, quello di Bari sarebbe morto!» – In particolare quest’ultima frase me la disse prima in dialetto barese e poi in italiano, poi continuò: – «Vedi, mi disse mio padre, questo paese ha tutto quello che manca a Bari per viverci meglio, ma fu fondato dal Re Manfredi, che era uno che faceva solo cose in grande, ma che, essendo stato scomunicato dal Papa, non solo non ha potuto vedere le sue opere completate, ma ha avuto tutte le sue grandi iniziative finite male!» –

E ancora: – «Quando io gli chiesi perché a Manfredonia non c’era il Porto, lui mi rispose: Perché, per fortuna nostra, a Manfredonia ci sono molti manfredoniani! Io ero piccolo allora e non compresi la spiegazione. L’ho capita dopo, quando negli anni si parlava, si parlava e il porto, a Manfredonia, non si riusciva mai a farlo! Ora, mi dicono che si è fatto finalmente il porto e sono venute le prime fabbriche! Sono contento, sono proprio contento!» –

Quando uscimmo dall’Ufficio del vecchio, volli spiegare ai miei ospiti che, sicuramente, il vegliardo aveva capito che io provenissi dall’ENICHEM, non avendo ben inteso la parola “giapponese”, ma che, comunque:

– «E’ stato veramente, per me, un incontro interessante ed istruttivo, oltre che piacevole. Condivido e sono d’accordo su tutte le parole che ha detto, specie perché io sono un autentico e verace “Manfredoniano”!» – e questo non lo avevano capito neanche loro!

Cap. IX – I RETROSCENA

Quello che non si sapeva

Tutto quello che ho raccontato finora sono avvenimenti vissuti direttamente oppure, se indirettamente, da me poi verificati ed accertati di persona. Devo adesso raccontare, necessariamente, fatti e notizie appresi dopo qualche anno dalla fine degli avvenimenti concernenti lo stabilimento, anche per dimostrare che, quelle nostre deduzioni non erano presunzioni gratuite, ma reali possibili evoluzioni.

Il caso ha voluto che, dopo la Ajinomoto-INSUD, sia stato assunto presso una fabbrica di alimenti surgelati situata nella zona industriale di Foggia, esattamente a cinquanta chilometri da Manfredonia, dove ci trovai l’amico Dott. Tavano. In verità, fu lui stesso che aveva segnalato il mio nome alla Direzione, mentre, dal 9 novembre 1977, lavoravo presso altra azienda privata, lontana da Manfredonia ma sempre in territorio pugliese.

Alla mia assunzione a Foggia, all’inizio del 1978, questa fabbrica, facente parte del gruppo SOPAL e, quindi della EFIM, era in completa ristrutturazione e rilancio, dopo un periodo di grave crisi finanziaria e produttiva. Durante il periodo di fermata degli impianti, per non sparire dal mercato, si era dato l’incarico ad altri stabilimenti di produrre con il marchio BRINA, fornendo involucri e astucci, intervenendo però con nostro personale incaricato nel controllo di qualità.

In uno stabilimento di nostri sub-fornitori, ebbi modo di conoscere un giovane e brillante ingegnere che, saputo della mia origine di Manfredonia, pose delle domande che destarono molta curiosità da parte mia e mi raccontò la sua vicenda.

C’era, quindi, questo giovane e brillante ingegnere, esperto di impianti e di fabbriche di surgelati che, un giorno, ricevette da Bari la telefonata di un noto avvocato, da lui conosciuto come acquisitore di aziende da “sdrenare”, come disse lui, e poi rivendere dopo aver guadagnato su tutto quanto fosse possibile guadagnare.

Questo avvocato lo invitava a trascorrere un week-end di lavoro a Bari, naturalmente ben retribuito e supportato. Conoscendo l’avvocato, il giovane ingegnere prese tutte le sue cose e, in auto, il giovedì notte era a Bari presso l’albergo in cui era atteso.

Al mattino del venerdì, l’avvocato gli presentò le proprie richieste: – «Devi farmi un progetto di investimento per la trasformazione di questa fabbrica, di cui ti fornisco una planimetria generale e qualche fotografia, in una fabbrica di surgelati, con la previsione di mantenere tutti i 230 dipendenti attualmente in forza. Hai 72 ore di tempo per prepararlo e tutto l’appoggio che ti serve, una dattilografa, il fotocopiatore, il telefono e la telescrivente dell’albergo, e tutto quant’altro ti serve: l’importante è che lunedì mattina, a qualsiasi costo, io devo presentare il tuo lavoro alla Regione Puglia, ai sindacati ed al Sindaco di quel paese.» –

Il giovane ingegnere si mise subito all’opera, penso dopo aver discusso del proprio adeguato compenso che, tuttavia, non fa parte della favoletta, e chiese qualche ulteriore informazione, non tralasciando, per onestà: – «Devo avvertirti che nella stessa zona, ad una cinquantina di chilometri, c’è già una fabbrica di surgelati ortofrutticoli che, però, è attualmente in una grave crisi e in ristrutturazione.» –

– «E tu non parlare di ortofrutticoli!» – gli rispose l’Avvocato, e proseguì: – «Anzi, siccome il paese è sul mare ed il Sindaco avrà tra i suoi elettori molti pescatori, tu parla di surgelare anche il pesce, così risolviamo i problemi della fabbrica e quelli dei pescatori! E poi, io ti ho chiesto un progetto di massima, mica ti ho detto che voglio costruirla sta’ fabbrica!» –

Ed infatti, lo scopo del racconto del giovane ed esperto ingegnere era appunto quello di sapere da me se, la presunta fabbrica per la surgelazione del pesce azzurro, fosse stata poi costruita, magari a sua insaputa.

Quello che si è saputo dopo.

In tutto il periodo della produzione della fabbrica a Manfredonia, abbiamo avuto pochissimi clienti francesi. L’ostacolo, naturalmente, non era la lingua ma lo sciovinismo dei francesi che preferiscono sempre e solo i prodotti nazionali.

Ed infatti, in Francia, c’era un colosso chimico produttore di zucchero e di glutammato che poneva molte barriere alla penetrazione del glutammato made in Manfredonia. Improvvisamente, all’inizio del 1976, esportammo del glutammato in Francia, prima una fornitura da parte del nostro grossista olandese, poi delle vendite dirette a mezzo TIR olandesi.

Dopo qualche anno dalla chiusura della fabbrica, avevo avuto sporadici contatti telefonici con quel venditore che girava l’Europa a vendere il glutammato, dipendente dell’Ufficio milanese e amico di famiglia del Presidente Prof. Signora. Era un bergamasco, autentico “leghista padano” ante litteram, nel senso che, per lui, già all’epoca, il sud incominciava dopo Bologna e lui, a sud, non ci andava molto volentieri.

Dopo qualche anno infatti, per la sua attività commerciale, mi delegò per alcune sue incombenze nel sud Italia, cui feci seguire la mia regolare fattura. E la cosa si ripeté per almeno due o tre volte e con reciproca soddisfazione. In una di queste occasioni, capitò di ritornare al ricordo dei tempi passati con i giapponesi e, ingenuamente, gli chiesi se avesse avuto altri rapporti dopo la fine dell’avventura della fabbrica di Manfredonia.

E lui mi rispose:

– «Ehi, baùscia! Ma davvero non l’hai ancora capito? Io non ho mai smesso di vendere glutammato Aji-no-moto in tutta l’Europa, solo che, adesso, è made in France e, lavorando in proprio, lo vendo e lo compro, anche ma per conto mio!» –

Il mio amico aveva messo su una società propria, per la rappresentanza, l’acquisto e la vendita di molti prodotti e additivi alimentari, tra cui appunto, il glutammato prodotto in Francia da una società paritetica, cioè al 50%, dei giapponesi con il principale concorrente francese dell’epoca di Manfredonia, la ORSAN.

Ma producevano insieme anche gli aminoacidi che poi rivendevano, in tutta Europa, come materie prime per fabbriche chimiche di medicinali e cosmetici, per le industrie alimentari e di surgelati, e gli affari andavano a gonfie vele, per i giapponesi, per i francesi e per il mio amico rappresentante.

Accertato che io, veramente, non avevo ancora capito niente, mi raccontò come i primi contatti tra i giapponesi ed i nuovi soci francesi si fossero avuti praticamente a metà del 1976, condotti da quel venditore giapponese dipendente da Amburgo e, per molto tempo, stanziale a Milano, che era riuscito, dopo molte insistenze, ad interessare i francesi.

Che una volta iniziata la discussione tecnica, era arrivato dal Giappone quel Dott. Okada che aveva, in un certo senso, avviato lo stabilimento di Manfredonia e che illustrò ai francesi le potenzialità complessive delle collaborazioni che si volevano realizzare (ecco perché, dopo le prime volte, non lo vedemmo più a Manfredonia).

Che, per stabilire i termini contrattuali per la collaborazione con la società francese, con l’intervento del Dott. Yamada e dell’Amministratore Delegato e con la consulenza di un grosso Studio Legale milanese, era stato previsto, nei patti para-sociali, come “conditio sine qua non”, la chiusura dello stabilimento di Manfredonia, prima della ultimazione e dell’entrata in funzione del costruendo stabilimento francese.

In pratica, i francesi accettarono di togliere dal mercato il glutammato di marca ORSAN solo con l’impegno dei giapponesi di chiudere Manfredonia, ciò per permettere al glutammato Aji-no-moto, made in France, e quindi della nuova società paritetica, di trovare il proprio campo libero sul mercato.

Infatti, sulla base di ricerche di mercato fatte singolarmente ma, in sostanza, coincidenti, all’epoca il surplus produttivo di glutammato in Europa era esattamente di 10 mila tonnellate annue, appunto quanto prodotto a Manfredonia. E’ inutile precisare che, dopo qualche mese dalla fermata degli impianti di Manfredonia, il prezzo del glutammato cominciò ad aumentare in continuazione.

Ma lo stabilimento del glutammato era solo il primo o il principale di un intero sistema di altre fabbriche satellitari che, sempre in compartecipazione tra i francesi ed i giapponesi (grazie anche all’adeguamento delle norme francesi alle leggi comunitarie), lavorando ed impiegando gli aminoacidi, producevano in proprio tutta la gamma di derivati come integratori alimentari, prodotti dietetici e farmaceutici, tutti ad alto valore aggiunto, oltre a fornire gli aminoacidi come materia prima per altri fabbricanti di simili prodotti, con la collaborazione anche della società di rappresentanza del mio amico.

Mi raccontò anche che i giapponesi erano andati in fibrillazione per l’inatteso intervento del Pretore, con il sequestro dello Stabilimento, rischiando di far saltare tutti gli accordi con i francesi, già in crisi per il ritardato inizio dell’occupazione di fabbrica rispetto al piano previsto dal Dott.Cappuccio e predisposto con la consulenza di un grande Studio Legale, ed infatti aveva fatto perdere le staffe a Yamada che, nel corso dell’ultima telefonata, mi aveva annunciato il ritardo della “soluzione”.

I giapponesi avevano, in un primo momento, deciso di “vendere” alla Società romana, per una cifra simbolica, una parte della loro Società con la cessione delle azioni, quindi senza alcuna soluzione di continuità del rapporto di lavoro, venendo a cambiare solo gli Azionisti. Intanto si preoccuparono subito di provvedere allo smantellamento e bonifica dell’area industriale sottoscrivendo, per questa operazione, formale impegno contrattuale con una società siderurgica bresciana. Poi, in seguito, sarebbero “usciti” dalla Società senza clamore, “all’inglese”.

L’intervento del Pretore costrinse a rivedere tutto il piano strategico e i giapponesi, per evitare altri imprevisti, non fidandosi più tanto dei collaboratori italiani scelti da loro stessi, anche per mantener fede alle dichiarazioni fatte al Pretore, decisero di liquidare e sciogliere la propria Società, di “svendere” gli immobili alla società acquirente, cedendo insieme il personale dipendente.

Per modificare i progetti, dovettero ottenere la nuova approvazione di Tokyo e, quindi, ammettere che c’erano stati degli imprevisti, cosa molto disdicevole per la carriera degli incaricati. Ma dovettero occuparsi di dar corso all’operazione più importante per la “casa madre” di Tokyo, lo smantellamento degli impianti, per cui “i nostri” giapponesi la realizzarono subito e direttamente, a propria cura ed a costo “zero”, lasciando all’impresa la disponibilità del materiale smontato.

In ogni caso, una volta finita la collaborazione con le Partecipazioni Statali, i giapponesi, forse anche prima, presero contatti con la ORSAN francese e, quindi, nessuno sarebbe stato in grado di modificare il corso della vicenda, forse.

Il Presidente, il Prof. Signora, non era stato in grado di intervenire per cambiare qualcosa ed era rimasto molto dispiaciuto e avvilito per la soluzione adottata, ma, subito dopo, si era dovuto preoccupare della salute propria e di quella della moglie, mollando ogni incarico e ritirandosi in pensione.

Lui, il mio amico venditore, era figlio di un grosso imprenditore nel settore siderurgico, per questo conosceva il Prof. Signora e conosceva bene anche l’impresa siderurgica incaricata dello smantellamento.

In quel settore, all’epoca, c’era una grave crisi produttiva e tanti “bresciani”, produttori dei famosi “tondini” per il cemento armato, chiudevano l’attività. L’impresa incaricata, non era soltanto in crisi produttiva, ma non era in grado di liquidare la ditta non avendo di ché pagare le indennità di licenziamento e le retribuzioni arretrate al personale dipendente. Per causa “nostra” e per l’intervento del Pretore, l’impresa rischiò di fallire a causa del protrarsi dell’occupazione di fabbrica e, poi, del ritardo sulla “liberazione” della fabbrica dalle maestranze.

Con la commessa di smontare e bonificare l’area industriale dello stabilimento di Manfredonia, aveva fatto un grosso “affare”, specie con l’acciaio speciale recuperato dai fermentatori, tanto da aver potuto risolvere tutti i propri problemi di “liquidità” ed aveva poi potuto chiudere l’attività.

Tutto il personale della impresa siderurgica che aveva poi “smontato” realmente la fabbrica, aveva avuto una ottima accoglienza a Manfredonia e, in particolare, dai nostri ex operai, ciò coerentemente con la vocazione dei nostri concittadini a ben accogliere il “forestiero” in genere.

Ma ho anche saputo che, in contemporanea, per controllare e seguire i lavori di “smontaggio” degli impianti e macchinari, erano tornati in paese un paio di alti pezzi grossi giapponesi, ossequiati e bene accolti, in albergo, dagli stessi miei ex colleghi e dagli operai.

Questa la racconto solo perché, quando eravamo in occupazione di fabbrica, molti degli amici operai ed ex sindacalisti, avevano minacciato fuoco e fiamme contro chiunque si fosse avvicinato alla fabbrica, anche “solo con l’idea” di smontare un bullone, mentre avevano tanto inveito contro i giapponesi affinché non si facessero mai più vedere a Manfredonia.

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