Domenica 22 Dicembre 2024

Cronaca (quasi) Quotidiana del viaggio sportivo-umanitario “Giro del mondo in bicicletta per i diversabili”

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1672mo giorno, cronaca 114, Trujillo (S8°07.283′ W79°01.934′), Perù, 31 agosto 2014 20:00-

Quando il 21 giugno 2014 il taxi che alle 5.30 di mattina avrebbe dovuto portarmi all’aeroporto di La Havana non si è presentato, sono sceso per strada e ho fermato una Buick della metà degli anni 50. Mi sono accordato con l’autista di accompagnarmi per un prezzo molto inferiore a quello dei taxi ufficiali e ho messo il cartone con la bicicletta sui sedili posteriori dove è entrato perfettamente in tutta la sua lunghezza, sicuramente la macchina più larga in cui ho viaggiato! Dietro di me nella fila per il check-in all’aeroporto c’era Kim, un ragazzo coreano, anch’egli con una bicicletta imballata, che andava a Bogotà. Aveva cominciato il suo viaggio su due ruote a Los Angeles con destinazione la Patagonia e poi l’Europa. Il decollo era previsto per le otto ma alle dieci ci è stato comunicato che a causa di problemi tecnici il volo era posticipato alle venti. Come sempre succede, nelle ore d’attesa si fa conoscenza con gli altri viaggiatori uniti nella stessa sorte e qui ho attaccato bottone con Sakura e Akano, due ragazze giapponesi nel mio stesso volo. Il decennio trascorso in Asia mi fa sentire più vicino alle persone con gli occhi a mandorla che ai miei simili indoeuropei.

farfalla bluAtterrati in terra colombiana a notte fonda tutti e quattro, più le due biciclette, abbiamo preso un taxi furgoncino per l’ostello Sayta nell’antico quartiere di Santa Fe. La mattina seguente a colazione ho scoperto che l’ostello è un punto di ritrovo per viaggiatori orientali ed ero l’unico bianco della decina di ospiti. La mia intenzione era di fermarmi un solo giorno ma, scartando la bicicletta, sono trasalito quando ho visto che il supporto del deragliatore posteriore era vistosamente piegato all’interno a seguito di una forte pressione che aveva subito nell’aereo. La curvatura era tanto accentuata che con le marce basse la puleggia inferiore toccava i raggi delle ruota, per il momento non potevo andare da nessuna parte. Quando il panico è passato, ho chiesto aiuto ai ciclisti cittadini tramite il sito warmshowers.org e il primo a rispondermi è stato David, un neolaureato in fisica che vive con sua madre nel lussuoso quartiere di Chapinero. Sono stato suo ospite per cinque notti mentre la bicicletta era dal suo meccanico di fiducia, che l’ha risistemata facendo un magnifico lavoro perché il deragliatore stesso era leggermente piegato.

Durante la mia permanenza a Bogotà sono andato in giro con il mio ospite incontrando altri ventenni in locali o a casa loro. In una di queste occasioni mi trovavo a parlare con una sua amica che mi raccontava di una giovane coppia di australiani che avevano vissuto in Canada, avevano attraversato il Messico in bicicletta e che ora si trovavano in città. Le dissi che otto mesi prima a Monterrey in Messico avevo conosciuto una coppia che aveva fatto esattamente la stessa cosa e che proseguiva per il sud America. Da una sommaria descrizione fisica poteva essere lo stesso paio e, più si aggiungevano piccoli particolari, più cresceva la possibilità che lo fosse, finché è diventata una certezza inconfutabile che sicuramente erano gli stessi due australiani. Dopo qualche telefonata, fu organizzato un incontro in un bar lì vicino e tutti ci dirigemmo verso quest’incredibile coincidenza del caso, increduli per quanto fosse piccolo il mondo. Quando abbiamo visto il taxi con i miei possibili amici, tutti abbiamo tenuto il fiato sospeso per un attimo sino al momento in cui la portiera si è aperta e non ho riconosciuto né la ragazza né tanto meno il suo partner! Dopo tutto ci sono 23 milioni di australiani e questo pianeta non è così piccolo…

David mi ha chiesto di restare per un’altra settimana, quando anche lui sarebbe partito per un giro ciclistico di Colombia e Panama, perché la mia presenza migliorava la sua relazione con la madre creando un cuscinetto che attutiva gli attriti. Anche la madre, una pensionata che aveva lavorato a livello manageriale per enti pubblici e imprese private, mi disse che potevo stare quanto volevo perché le tenevo compagnia e le sue conversazioni erano realmente interessanti ed istruttive. Ma, per sua stessa natura, un viaggio deve continuare, così la mattina del 28 di giugno, accompagnato da David alla porta sudorientale di Bogotà ho attaccato la cordigliera centrale delle Ande.

La capitale colombiana, benché si trovi a 2700 metri, è in una vallata circondata da una corona di montagne che superano i 3000 metri e che bisogna superare prima di scendere per una discesa di una buona quarantina di chilometri. Così si arriva ai 700 metri di La Mesa, dove ho trascorso la notte, per poi risalire ai 1300 di Ibaqué, fermandomici due giorni ospite di Tiena e suo marito, che appena qualche giorno prima avevano ospitato Kim, il ragazzo coreano incontrato a Cuba. Questi sono due artisti del mosaico che colorano e cuocono loro stessi le tessere per la composizione così da creare gradazioni di tonalità che sfumano armoniosamente facendo sembrare la figura un vero dipinto per omogeneità del colore e i dettagli dell’immagine. Ho mostrato loro i video dei mosaici bizantini che ho ripreso a Istanbul e ne sono rimasti stupefatti e, mi hanno assicurato, anche ispirati.grotta con faccia

So che i vincitori del Giro d’Italia del 2014 sono stati Nairo Quintana e Rigoberto Uran solo perché mi trovo nella loro terra natale e ho appreso che si sono fatti le gambe scalando e, presumo, discendendo lungo i 45 chilometri di strada che il quattro luglio ho cominciato a percorrere. Il tratto è chiamato “la linea” ma il nome non corrisponde alla realtà perché di rettilineo non ha proprio nulla. Al contrario è un’interminabile serie di curve sul fianco della montagna ricoperta di lussureggiante vegetazione equatoriale, che sempre più ripido arriva sino al passo a 3300 metri. Qui per la prima volta ho realmente sentito l’effetto della rarefazione dell’aria con il respiro affannoso nonostante respirassi a pieni polmoni, sicuramente superiore al normale. I nativi di queste terre hanno sviluppato due mutazioni genetiche che li aiuta a vivere agevolmente a queste altitudini: una cassa toracica particolarmente amplia in rapporto al resto del busto, che gli dà quella apparenza un po’ tozza, e un maggior numero di globuli rossi nel sangue che permette di trasportare più ossigeno agli organi. L’altro effetto dell’altitudine è la temperatura dell’aria che, nonostante mi trovassi all’equatore dove il sole è veramente a picco, scendeva in rapporto diretto con l’altezza tanto da non superare i 10 gradi Centigradi anche durante il giorno.

Quando mi chiedono se sia faticoso pedalare in montagna rispondo: solo la salita, la discesa è riposante! E così fu quella discesa della Cordigliera occidentale sino ad Armenia, dove mi sono fermato una notte da Hernando e anche lui avevano ospitato Kim la settimana prima. Da quel punto l’autostrada 25 percorre una lunga vallata pianeggiante tra le cordigliere, arrivando a Palmira dove ho sostato da Ramiro, un ventenne campione di bici da montagna che partecipa e spesso vince competizioni in tutto il paese. Quella notte erano ospiti anche una coppia di ciclisti canadesi partiti da Vancouver con destinazione la Patagonia. Due tipi avventurosi che in passato con due canoe avevano costeggiato tutto il litorale della Colombia Britannica sino alle isole dell’Alaska meridionale fermandosi a dormire sulla spiaggia e mangiando solo pesce pescato durante il giorno. Ma quello che trovo più straordinario è che sono andati da Città del Capo al Cairo via terra, attraversando tutto il continente africano senza volare, io avrei paura a farlo!

matteo angel carlos - caliLa tappa successiva è stata Cali, raggiunta l’otto di luglio, dove ho fatto sosta per tre giorni e sono stato costretto a comprare un nuovo paio di occhiali da vista perché i miei sono stati masticati dal pestifero cane di Carlos e Paola, dai quali ero ospite. Di buono c’è che la visita oculistica a cui mi sono sottoposto, non ha rilevato gran differenza dall’ultima che risaliva a sette anni or sono. A casa di Carlos ho anche conosciuto Angel e Martix, una coppia di cicloviaggiatori spagnoli, con lui che in inverno si esibisce come mimo e clown in un circo in Svizzera e che stavano risalendo il Sud America fermandosi a montare spettacolini in scuole rurali e centri per bambini indigenti.

La valle, che per la sua maggiore estensione è sfruttata per la coltivazione della canna da zucchero, termina a Santander, un’altra sosta molto interessante perché sono stato con la famiglia di Javier, la sola pura indio con cui mi sia fermato, ma anche la più umile che abbia contattato via Warmshowers.org. I quattro membri vivono quasi all’aperto, compresa la doccia e la cucina e fanno eccezione solo due camerette di mattoni cotti coperti di lamiera ondulata, una delle quali mi è stata assegnata solo. Vivono vendendo minuti di conversazione telefonica alla gente in piazza e la buona decina di telefonini Nokia che usano hanno le tastiere talmente consumate che i numeri si possono solo indovinare. L’umiltà dignitosa di queste persone è toccante, ho invitato i due figli a cenare in qualche ristorantino ma questi hanno preferito mangiare un panino con salsiccia da una bancarella in piazza.

Il 12 luglio sono arrivato a Popayan chiamata la città bianca perché tutte le case del centro storico coloniale sono completamente tinteggiate a calce bianca, a eccezione di alcuni dettagli dei palazzi e della chiese, come gli stucchi o le cornici dei portoni, dipinti a colori più vivaci. Quasi tutte le insegne dei negozi sono di ottone, invece che al neon, dando al tutto un’atmosfera e sensazione di antico, come era in un tempo passato quando tutto era meno luminoso e più misterioso.

A 23.5 chilometri a sud della città bianca, alle 11:30 del mattino, sulla principale direttrice colombiana nord-sud, l’autostrada nazionale 25, per la prima volta in vita mia ho avuto un’esperienza che avrei preferito evitare: sono stato rapinato. Erano due ragazzotti, forse nemmeno maggiorenni, che con un motorino mi hanno affiancato e bloccato in un tratto di strada tra due strette curve che non permettevano la visibilità che per poche decine di metri. Il più grande ha tirato fuori della cintura una pistola automatica di colore nero, me la ha mostrata e ha detto “la camara”. A quel punto ho capito che si trattava di una rapina e non dei soliti curiosi che spesso mi avvicinano con domande. Ho aperto la borsa che tengo al manubrio tirando fuori la macchina fotografica, mentre il più grande dei due mi strappava il lettore MP3 che tenevo al braccio. L’altro più piccolo, ha visto che nella borsa c’era anche la videocamera e ha provato a prenderla ma l’ho fermato. A questo punto, il grande ha estratto nuovamente la pistola e me la ha puntata in viso a una trentina di centimetri mentre il piccolo si impossessava della videocamera e del telefonino. Poi si sono guardati intorno e sono saltati in sella al motorino sparendo dietro la prima curva. Ero ancora abbastanza sotto shock o meglio cercavo di comprendere a pieno quello che era appena accaduto, quando le macchine hanno ricominciato a transitare. L’intera ruberia non è durata più di un minuto, tutto è stato incredibilmente veloce, rapido come un batter d’occhio in cui quella strada è stata deserta, anche se credo che il passaggio di qualche automobile avrebbe solo posticipato quella rapina a mano armata di qualche altra curva più avanti tra le montagne.matteo bici e ponte

Mi piace pensare, e sempre dico, che il 99% dell’umanità è buona e che il compito della polizia sia di proteggerla da quell’altro 1%! Purtroppo qui nel Nuovo Mondo devo rivedere questa mia statistica perché la sicurezza personale in tutti questi paesi è un problema reale e quotidiano. Si nota da come la gente ti guarda, seguendoti con gli occhi senza girare la testa, come per non farsi notare. In tutta la mia vita questa è stata la prima volta che mi hanno puntato in faccia una pistola per rapinarmi ma tutti i locali che ho conosciuto sono stati vittima di uno o più episodi di crimine violento con armi bianche o da fuoco, episodi quasi inesistenti nei paesi del Sud-est asiatico dove ho vissuto. In Perù il cinque ottobre ci saranno le elezioni politiche e negli slogan di tutti i partiti campeggiano sempre le parole “más seguridad”, segno che il problema è tangibile e fortemente sentito dagli abitanti. Mi hanno persino consigliato di tenere sempre pronta un piccola somma di danaro, intorno ai 20 dollari perché meno sarebbe offensivo e non credibile e più sarebbe troppo!, pronta da cedere nella probabile eventualità di essere “asaltado”.

Le ragioni di questa violenza criminale sono innumerevoli e partono dalle culture precolombiane con i loro sacrifici umani, attraverso tutta la cruenta vicenda della colonizzazione con la schiavitù e la de-umanizzazione delle popolazioni autoctone, fino alle odierne guerriglie maoiste che, specialmente in Colombia, hanno portato avanti conflitti per decenni diffondendo l’uso delle armi da fuoco. Il tutto farcito con quell’idea, ancora molto sentita, del territorio selvaggio, delle frontiera ancora da scoprire e espandere, del doversi difendere dai pericoli di queste terre tutt’ora selvatiche. Aggiungendoci anche i problemi moderni delle abissali disuguaglianze economiche e sociali, della mancanza di istruzione e della cultura violenta presentata dai media, della mentalità degli abitanti del terzo mondo in generale di credere che un occidentale sia sempre più ricco di loro, e molte volte lo è. Mettiamoci pure le degradate condizioni familiari, sociali e finanziarie in cui forse si trovavano quei due giovani rapinatori, e ponendo che erano sotto l’influenza di pesanti sostanze stupefacenti, tanto abbondanti in queste contrade, riesco quasi a comprenderli, ma non certo a giustificarli perché sicuramente non l’hanno fatto per fame, non ne va della loro sopravvivenza. Sono certo che i soldi che guadagneranno dalla vendita della telecamera, non credo che la tengano per girare filmini!, saranno utilizzati per fini molto più futili ma più piacevoli.

In questi ultimi 18 mesi trascorsi lungo le Americhe ho imparato che questo è un continente di estremi e di eccessi: c’è troppa povertà ma anche troppa ricchezza, ci sono troppe disuguaglianze sociali e troppa ignoranza, troppa religione e troppa violenza, ma il peggio di tutto è che il volume della musica è sempre eccessivamente troppo alto!

Quando ho superato quel primo momento di shock e ho ricominciato a ragionare lucidamente, ho proseguito per un paio di chilometri sino al barettino più vicino e ho chiamato la polizia che mi ha chiesto di che colore fossero vestiti i due. Per fare una denuncia ufficiale avrei dovuto ritornare sui miei passi per una quindicina di chilometri e vi rinunciai. Questo crimine mai rientrerà nelle statistiche ufficiali della Colombia, ma solo in quelle mie personali. Chiaramente avevo già rinunciato a qualsiasi speranza di rivedere la mia roba e con essa i filmini di Cuba e della Colombia che vi erano registrati e che non avevo ancora copiato nel computer. Alla fin fine, la vera perdita che ho subito non è quella economica e di fiducia nell’umanità, ma quella sentimentale e il fatto che ci sarà un buco nella narrazione visiva del viaggio.

Matteo Tricarico Ecuador borderUn’altra interessante sosta è stata quella della città di Pasto, raggiunta dopo 200 chilometri di saliscendi tra i 600 metri dei fondovalle e i 2800 dei passi, su una strada che di snoda tagliata nella viva roccia della montagna. Qui i pendii sono particolarmente ripidi e da una valle all’altra la vegetazione passa dall’essere verdeggiante e rigogliosa, per la presenza di un fiumiciattolo, all’arida e spinosa dove l’acqua non giunge. Lunghi canaloni sono quasi desertici e spogli di flora, con la sola eccezione di piante grasse e secchi arbusti spinosi, mentre altri, ad altitudini inferiori, sono più lussureggianti con alberi bassi che sembrano più ad alti cespugli. Ma ci sono anche fitti boschi di pini e betulle lungo le pendici del Cerro Morazurco che dal nord sovrasta tutta Pasto visibile giù a valle dai 3000 metri del passo. In città sono stato da Andrea e Ivan. Lui sta terminando il suo dottorato di ricerca in letteratura su “Las autobiografías de escritores”, analizzando come questi autori si auto raccontano e come la narrazione differisce dai loro personaggi, mentre lei gestisce una compagnia di servizi postali cittadini in bicicletta. Due cicloviaggiatori che stanno preparando un viaggio sino a Ushuaia a partire dal mese di settembre. Qui mi sono fornito di nuovo equipaggiamento elettronico conseguendo una macchina Pansonic impermeabile sino a cinque metri sott’acqua e che registra sia video in fullHD sia fa foto a 16 Megapixel, concentrando così in un unico apparecchio video e foto e riducendo volume e peso della camera e del caricatore di batteria. Di fatto i rapinatori mi hanno alleggerito in più di un senso.

La mattina del 19 luglio ho lasciato Pasto in compagnia di Ivan e Andrea che volevano trascorrere una notte campeggiando nella valle di Pilcuan, ad una settantina di chilometri a sud della città. La prima metà è una scalata da 2600 a 3300 metri per poi scendere ad appena 1800, dove ci siamo fermati per la notte ponendo le tende a qualche metro dagli argini di un affluente del Rio Guaitara, immersi in una folta selva composta da alberi di conifere dei climi più rigidi ma anche di una folta vegetazione tipicamente equatoriale. La mattina seguente ci siamo separati, io proseguendo verso il vicino confine con l’Ecuador e loro risalendo la china del Navarrete per tornare a casa.

Lo stesso giorno ho raggiunto la città di Ipiales, l’ultima in terra colombiana, da dove comincia la vera cultura andina che nell’ultimo secolo precolombiano corrispondeva con l’estensione dell’impero Inca che arrivava sino all’odierno Cile. La frontiera con l’Ecuador si trova a 2800 metri d’altitudine, tra montagne ricoperte di boschi di pini e abeti, con le bandiere dei due stati che sui pennoni si fronteggiano, identiche nei colori e nella loro disposizione con l’aggiunta di uno scudo che campeggia in quella ecuadoriana. I due paesi, per i primi 20 anni dall’indipendenza, erano un tutt’uno chiamato Grande Colombia ma i differenti substrati culturali ancestrali hanno portato al conflitto e alla creazione di due entità statali separate sin dal 1830.

Senza rendermene conto ho attraversato la linea dell’Equatore passando così nell’emisfero meridionale e, a tappe forzate, ho proseguito lungo la Pan-americana per la capitale Quito, che ho raggiunto il pomeriggio del 25 luglio. Qui sono stato a casa di Diego e sua moglie, entrambi amanti della bicicletta che hanno una bambina di nove anni e uno di sette. Con loro mi sono fermato solo due notti e per un’intera giornata ho visitato il centro storico, che giustamente è patrimonio dell’umanità per la sua magnifica architettura coloniale sia civile che religiosa. Di seguito ho continuato a discendere verso sud per la nazionale 35 e ad Ambato sono stato ospite di Bruno, un ragazzo che ha vissuto maggiormente in Brasile, paese originario di sua madre, che qui gestisce due ristoranti lasciatigli dal padre. Bruno ha lungamente viaggiato nelle Americhe e Ambato, dove viveva in pianta stabile solo da un annetto, gli stava stretta e cercava una maniera di liberarsi per alcuni mesi e partire, un problema comune a molti…matteo chiesa

Questo è il punto geograficamente più vicino alla più vasta distesa di giungla di questo pianeta: l’Amazzonia, che non potevo perdere di visitare. Perciò il 31 luglio ho imboccato la nazionale 30 che, via Baños arriva sino a Puyo ai margini della foresta, via una lunga discesa scavata nelle pendici delle montagne che arriva a valle tra una vegetazione sempre più fitta sino a diventare impenetrabile. Le scimmie Cappuccino bianche e nere diventano abitanti comuni della volta della foresta e nelle spaccature dei declivi si incanala l’acqua che dalla montagna scende nell’immensa conca amazzonica. Prima in milioni di rivoli, poi in migliaia di ruscelli impetuosi che, sempre più larghi, confluiscono in centinaia di fiumi che unendosi creano il più maestoso di tutti: il rio delle Amazzoni. Così, le piogge e l’umidità del Pacifico, via la colonna vertebrale della foresta, dopo 7000 chilometri, vanno a gettarsi nell’Atlantico, dopo aver aiutato a nutrire l’area con maggior biodiversità terrestre e d’acqua dolce.

Nella calda Puyo decisi che era il momento di migrare in aree dal clima più mite lungo la costa ecuadoriana. Avevo trascorso l’ultimo mese e mezzo tra le alte e fredde cime andine, perciò ritornai sui miei passi ad Ambato per seguire a Guaranda. Quest’ultimo tratto è stato tanto duro fisicamente quanto incantevole paesaggisticamente perché la strada sale a 4300 metri sino all’altopiano di una decina di chilometri ai piedi del vulcano Chimborazo che, tutto ricoperto di bianchi ghiacciai, si erge in forma di cono perfetto per altri 2000 metri. Era la prima volta che pedalavo a quell’altitudine dove la rarefazione dell’aria è un fattore significativo mentre appena lo si percepisce 1000 metri più a valle e ho dovuto fermarmi a riprendere fiato per alcuni minuti ogni paio di chilometri. Sull’altopiano la temperatura era appena superiore allo zero e ho cercato riparo nella capanna di una famiglia di indio per potermi cambiare con pantaloni e maglia lunghi. Dei cinque membri della famiglia sono due delle figlie ventenni parlavano un po’ di castigliano, perché andavano al mercato a vendere le patate che coltivano, gli altri conoscevano solo il Quechua, la lingua franca degli Inca. Nella fumosa saletta dove ardeva un tenue fuoco di brace, mi hanno offerto un piatto di riso, patate e mais che ho praticamente divorato con due cucchiaiate. Poi ho proseguito sul tavoliere brullo, ricoperto solo di pietre bianche e ciuffi d’erba giallastra dove pascolavano branchi di alpaca dalla lana dello stesso colore del suolo. Intirizzito dal freddo, affannato e stanco, da Guaranda ho cominciato la discesa verso il Pacifico, da cui mi ero separato in Messico nove mesi prima, e con cui il sei agosto mi sono riunito all’altezza di Puerto Cayo, a una quarantina di chilometri a sud di Manta.

Tutta la costa è costellata di villaggi di pescatori che si sono parzialmente convertiti in zone turistiche con strutture alberghiere di ogni livello per accogliere statunitensi e canadesi che vengono a fare surf ma soprattutto giovani argentini e cileni a fare festa. La località più frequentata e conosciuta è Montañita, un concentrato in quattro isolati di bar, ristorantini, pub e ben sei grandi discoteche senza pareti ma con solo il tetto che dalle dieci della sera alle sei della mattina fanno ballare migliaia di appena ventenni. Ero stato avvisato della tempesta di decibel che ogni notte si abbatte sulla cittadina e ho alloggiato a più di un chilometro dal centro ma, nonostante la distanza dalla fonte, le onde dei bassi facevano vibrare i vetri della mia finestra. Per tutta la notte le viuzze diventano teatrini dove giocolieri, mangia-fuoco, prestigiatori, mimi e artisti di strada di ogni sorta si esibiscono in spettacolini che spesso coinvolgono gli spettatori. La movida notturna è concentrata in uno spazio ristretto ma è impressionante per vitalità, ragazzi di buona famiglia appena ventenni si divertono bevendo e ballando in un ambiente hippy e fricchettone.

scimmie nella rocciaSino a Guayaquil ho percorso le colline costiere ricoperte di alberi bassi e vegetazione a macchia, per poi proseguire dritto al sud alla frontiera peruviana. Guardando la mappa di questi paesi mi sono sempre chiesto perché le ultima grandi civilizzazioni precolombiane si sono sviluppate nelle montagne invece che lungo questa fascia di terra piatta tra l’oceano e le cordigliere e ora l’ho capito: quell’area è completamente desertica. È una distesa rocciosa e arida, che comprende tutto il Perù e il nord del Cile e di cui ho percorso solo i primi 1000 chilometri, molto simile agli altopiani iraniani o, per la vicinanza al mare, al deserto costiero dell’Egitto. Anche qui c’è lo stesso contrasto tra il blu intenso dell’oceano e il beige chiaro della roccia sabbiosa puntellata di arbusti spinosi che non permette alcun tipo di coltivazione. Una notte mi sono fermato a dormire in tenda nei pressi di una fattoria dove un anziano padre e suo figlio tiravano fuori quello che potevano da un piccolo gregge di una decina di capre capaci di nutrirsi delle poche foglie che riuscono a strappare tra le spine. Come in tutti i deserti che si rispettino c’è sempre un forte e costante vento che in questo caso sta soffiando da sud lungo la costa, esattamente contro le direzione che sto seguendo. Nell’emisfero nord, dall’Alaska in giù, ho sempre avuto il vento alle spalle mentre qui mi toccherà contrario sino alla Patagonia, un ciclista argentino l’ha definito lo Yin e Yang del continente. Queste condizioni avverse stanno rallentando molto la marcia e la monotonia dell’ambiente circostante non aiuta il morale. Ma devo continuare e credo che mi mancherà questa piattezza del suolo quando mi troverò a 4000 metri nel Perù meridionale e in Bolivia…

Il 16 agosto ho attraversato la frontiera peruviana fermandomi per un paio di notti a Tumbres ma, proseguendo relativamente rapido nonostante il vento contrario, ho raggiunto Trojillo, 600 chilometri di terra arida lungo la nazionale 1. Qui sono ospite di Sabrina e di Max, il suo ragazzo svedese classe 1954 e 25 anni più vecchio di lei. Un tipo interessante che appena diciannovenne aveva viaggiato via terra da Stoccolma ai confini dell’India con il Myanmar, un viaggio attraverso Afghanistan, Kashmir e Tibet, una via che oggi non si può più percorrere. I due hanno dedicato una stanza della vasta casa a camera degli ospiti di passaggio che li contattano via i siti Couchsurfing.org e Warmshowers.org. C’è più movimento che in un ostello e negli ultimi quattro giorni sono venuti e andati via due ragazzotti brasiliani, una coppia tedesca e Karel, un cicloviaggiatore di 63 anni della Repubblica Ceca che aveva cominciato il viaggio in bicicletta con il figlio e la ragazza in Cile, ma questi ultimi si erano fermati in Bolivia mentre lui aveva continuato solo dirigendosi a Bogotà e poi un mese a Cuba. Gli ospiti occasionali si aggiungono a un gruppetto di avventori regolari della casa dove quasi ogni notte c’è una festicciola con superalcolici che scorrono come limonata. Agli ospiti di passaggio è sempre richiesto preparare un piatto tipico del paese d’origine e Max mi ha domandato di cucinare spaghetti alla carbonara con vero parmigiano italiano. Non ho ancora stabilito la data di partenza, appena mi decido ve lo comunico… Alla prossima.

Se avete domande o curiosità lecite, sarò lieto di rispondervi. mt@matteot.com

Sito Ufficiale del progetto con informazioni, foto e video www.travelforaid.com. Cronache precedenti www.travelforaid.com/cronaca

serpente corallo

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