La schiera di politici e amministratori disonesti che in quest’ultimo ventennio ha raggiunto cifre da capogiro è un male antico quanto il mondo. Vi raccontiamo un episodio che tanto turbamento provocò tra i sipontini al punto da far irritare addirittura un papa. La vicenda risale al XVIII sec. Il 29 maggio 1724, con viva sorpresa il popolo sipontino apprese la notizia che Pierfrancesco Orsini da Gravina di Puglia, già arcivescovo di Manfredonia dal 1675 al 1690 con il nome di Vincenzo Maria, era salito al soglio pontificio assumendo il nome di Benedetto XIII. La notizia, inaspettata, fece venire alla mente un altro avvenimento simile risalente al 1550, allorquando Giovanni Maria de’ Ciocchi del Monte, arcivescovo di Manfredonia per ben trentadue anni, fu eletto papa con il nome di Giulio III. Tanta la gioia che il sindaco generale dispose tre giorni di festeggiamenti con funzioni religiose e iniziative ludiche. Al termine degli stessi partirono per Roma i canonici don Michele De Nicastro e don Vincenzo de Milo, per il Capitolo Metropolitano, e i decurioni don Giovanni Antonio Cessa e don Oronzo dei Marchesi Tontulo, per il Parlamento sipontino. Amorevole fu l’accoglienza di Benedetto XIII riservata alla delegazione sipontina, memore della intensa attività svolta in favore di Manfredonia. Egli volle ancora una volta omaggiare la chiesa sipontina consegnando ai delegati una mitra ornata d’argento, l’anello episcopale, un podio, due reliquie di S. Filippo Neri, i precordi in un reliquiario d’argento, la berretta in un’urna di cristallo e argento e un pezzetto del legno della Croce, autorizzando, altresì, ai canonici l’uso della mitra. Papa Orsini non aveva dimenticato che a Manfredonia c’era penuria di acqua, mentre a pochi passi dalla Chiesa di Siponto vi era una sorgente dalla quale sgorgava tanta acqua potabile. Egli pensò bene di affidare alla predetta delegazione ben seimila scudi romani equivalenti a settemila ducati napoletani per l’Università di Manfredonia (Comune) perché si provvedesse a realizzare un acquedotto che portasse l’acqua fino al centro abitato. Inoltre dispose che si costruisse una grande fontana in marmo con statue e giochi d’acqua in Piazza S. Domenico (oggi Piazza del Popolo), dando incarico a un architetto pontificio di recarsi a Manfredonia con la delegazione per la progettazione e l’esecuzione dei lavori. L’incarico della realizzazione delle opere venne affidato dal Parlamento locale ai decurioni don Dionisio Mettola e don Gian Lorenzo Celentano, i quali provvidero ad assumere duecento operai costretti a lavorare a suon di tamburo. Il ferro, piombo e tubi giunsero da Venezia. Sulla sorgente fu realizzata una struttura per la raccolta delle acque. Qui la truffa. I lavori vennero sospesi a seguito di un infortunio mortale (risultato falso) occorso all’architetto, nel frattempo scomparso. Della cosa venne informato il papa il quale dispose che la ingente somma residua fosse consegnata all’arcivescovo di Manfredonia per il restauro della cattedrale quasi distrutta dai turchi (1620). Anche questo progetto fallì. I due decurioni e l’architetto, con la complicità dell’arcivescovo fecero sparire gran parte del contributo pontificio, avendone speso solo l’ottava parte. Il danno più grave fu compiuto con la demolizione dell’edificio della Tribuna fatto costruire da Manfredi e d’Angiò i cui materiali dovevano servire per costruire l’acquedotto e la fontana. Materiale di cui si appropriarono. La credenza popolare collegò a questi avvenimenti le sventure che colpirono i figli e i nipoti dei decurioni Mettola e Celentano e le calamità patite dall’intera cittadinanza con la convinzione che papa Benedetto XIII avesse scomunicato per sette generazioni i manfredoniani. A parte la superstizione popolare, questo episodio di “ordinaria immoralità” deve farci riflettere. Le somme sottratte alla collettività, la demolizione della Tribuna, degli edifici in Piazza del Popolo, dello stravolgimento di quest’ultima che rappresentarono un tempo la memoria, sono i delitti più gravi che si siano potuti perpetrare ai danni della nostra città e dei quali bisogna dare conto alle nuove generazioni.
Matteo di Sabato
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