155mo giorno, cronaca 112, Playa del Carmen (N20°39.451 W87°05.126), Messico, 1 Maggio 2014 9:30 –
L’undici febbraio 2014, mentre entravo in bicicletta nel paesino alla punta della penisola di Punta Gorda all’estremità sud del Belize, mi sono sentito chiamare, voltandomi ho visto una ragazza che mi inseguiva correndo e agitava le mani facendomi segno di fermarmi. Frenato e lasciatomi raggiungere, la sconosciuta si è presentata come una collega ciclo-viaggiatrice e mi ha domandato del viaggio. In dieci parole le ho riassunto l’itinerario e la ragione umanitaria e lei ha voluto maggiori dettagli sul “passaggio a nord-ovest”, perché di quelle parti. Elencatole la lista delle soste lungo la Marine Alaskan Highway, mi ha chiesto dove mi fossi fermato a dormire sull’isola di Ketchikan. “Presso la famiglia…”, “La famiglia Round” mi ha interrotto, completando la frase. “Sono Olivia Round e tu sei stato ospita dei miei genitori!”, “E ho dormito nel tuo letto…” ho terminato. Al giorno d’oggi, con la facilità di viaggiare, una tale coincidenza non dovrebbe sorprendere nessuno, ma queste piccole casualità lasciano comunque piacevolmente esterrefatti. Potrebbero persino parere fatalità volute dal destino che si diverte a concedercele per ragioni che la nostra ragione non può comprendere, se non per farci capire che viviamo su un piccolo pianeta e c’è qualcosa che ci accomuna tutti.
Ho trascorso i seguenti due giorni con Olivia che si trovava a Punta Gorda per svernare e intanto imparava lo spagnolo da un’anziana maestra guatemalteca che con le figlie gestiva un chiosco di snack locali sulla spiaggia. Rimasi in quel villaggio sino al 15 febbraio quando presi la decisione di proseguire per il Guatemala entrando dal porto di Puerto Barrios. Il giorno successivo mi sono imbarcato sulla lancia che attraversa il Golfo dell’Honduras, con un mare grosso che faceva sobbalzare i passeggeri e la mia bicicletta malamente assicurata a prua. La mia prima impressione del Guatemala è stata di entrare in un paese decisamente più povero degli altri due mesoamericani del nord. La povertà, sino all’indigenza, è palpabile ovunque e la conseguenza principale è il minor costo della vita che diventa sensibile con i beni di prima necessità e l’alloggio che scendono a meno di dieci dollari americani al giorno.
Sempre con una lancia a motore lunga e stretta, il 19 febbraio approdai nel villaggio di Livingston che si trova su una penisola raggiungibile solo via barca. Il nome chiaramente lascia intuire che si trattava di un possedimento inglese quando tutta la colonia era conosciuta come Honduras britannico. Ma si capisce immediatamente anche dal fatto che gli abitanti sono di colore, discendenti degli schiavi africani che dalle isole della Giamaica, dalla metà del XVIII secolo, furono portati dai colonizzatori e che oggi formano il gruppo linguistico, ma non etnico, dei Garifuna. La loro lingua è incomprensibile anche se composta da alcuni idiomi conosciuti, perché si tratta di un’insalata di inglese, dialetti africani e delle popolazioni caraibiche condita con olio e spezie spagnole creolizzate. Per esempio la seconda persona singolare dell’indicativo presente del verbo essere diventa “tu soys”, molto più logico e sensato dopo “yo soy” rispetto dell’irregolare e irragionevole castigliano “tu eres”! In questo posto, che pare fuori dal tempo per il suo scorrere talmente lento e flemmatico da dare l’impressione di fermarsi del tutto, ho trascorso ben dieci giorni editando video, scrivendo, passeggiando nel villaggio e parlando con la gente che ti risponde in un inglese comprensibile. All’etnia è riconosciuta sia la maestria nella musica a percussioni, con i tamburi che spesso si sentono tuonare a ritmi sempre più vorticosi per tutta la notte, sia per una squisita cucina creola che ho particolarmente apprezzato per l’uso abbondante di latte di cocco, quasi completamente assente in quella messicana e guatemalteca.
Ancora in lancia, mi sono trasferito alla cittadina di Rio Dulce sul lago Izabal, attraversando per intero l’omonimo fiume e la riserva di biodiversità di Chocon Macharas. Qui la foresta diventa giungla propriamente detta, che vista dal fiume è un muro impenetrabile di vegetazione che si sovrappone l’una all’altra celando al suo interno due terzi della biodiversità animale del pianeta. La giungla, rispetto ad altri ecosistemi, è vecchissima, esiste dall’inizio della vita sulla terra e forse sempre ci sarà, essere umano permettendo… I grandi boschi di conifere del nord scompaiono durante le ere glaciali; i fiumi si prosciugano e laghi e mari si seccano; persino le maestose montagne si corrodono e diventano fini granelli sabbia. La foresta è sempre lì, continuamente in evoluzione e pur sempre immobile nella sua presenza costante attraverso tutte le ere geologiche. Nel suo complesso, è il macro-organismo vivente più longevo di tutta la storia della vita terrestre grazie alla sua capacità di curarsi dalle ferite dei cambiamenti climatici che hanno distrutto altri ecosistemi.
Così, immerso nella straripante vegetazione precariamente separata dalla striscia di bitume della statale CA 13, che ho imboccato a Rio Dulce, ho ripreso a pedalare verso nord-est dopo quasi venti giorni di spostamenti in barca. Certo, da questo punto di vista la bicicletta è limitata a poter viaggiare solo su un terzo del globo terraqueo perché gli altri due terzi sono sott’acqua! La mia prossima destinazione era l’antica città Maya di Tikal nel cuore della regione del El Peten, parte centrale della grande riserva naturale Maya che si estende attraverso Messico, Belize e Guatemala. La città moderna più prossima alle rovine è la pittoresca Isla de Flores, situata su un isolotto del lago Peten Itza. Flores è collegata alla terraferma con un ponte ed è un colorito quartiere con graziose file di casette che quasi a spirale salgono sino alla sommità dell’isola dove si trova la piazza centrale con chiesa e municipio e da dove si ammira una magnifica vista del lago circostante e delle alte colline che lo contengono.
Sul lungolago di Flores, che la sera si trasforma nella via del passeggio, tra bancarelle di artigianato e prodotti culinari ho notato una bici carica da viaggio con due asticelle con un centinaio di bandierine di diversi paesi, alcune dai colori completamente sbiancati dal sole, tanto da non poterne distinguere la nazione. Al fianco della bici c’era una mappa del mondo con linee blue e rosse che percorrevano zigzagando i continenti e una scritta in varie lingue che presentava un DVD in vendita con video di tutti i paesi del mondo. Così ho fatto la conoscenza dell’argentino Pablo Garcia, (www.pedaleandoelglobo.com/) un quarantenne veterano del ciclo-viaggio, con all’attivo 10 anni ininterrotti di ciclo-cammino attraverso tutti i continenti compresi un paio in Africa e Medio oriente. Ci siamo rivisti nei giorni successivi, scambiandoci rispettive esperienze di ciclo-viaggio, cercando quello che uno aveva fatto e no l’altro no, un po’ di rivalità tra due viaggiatori che hanno la stessa passione. Comunque, con un po’ di tristezza alla fine Pablo mi ha confessato che contava di rientrare a Buenos Aires per il 2016 perché cominciava ad essere stanco della vita nomade e voleva provare a vivere in modo normale. Credo di averlo consolato dicendo che tutti passiamo per simili momenti, ma che poi passano.
La visita delle rovine di Tikal mi ha aperto gli occhi sulla vera grandiosità dell’urbanistica Maya al suo apice ma soprattutto nei secoli successivi del periodo detto post-classico. I maya non crearono un vero e proprio impero ma più tosto si dividevano in polis in permanente conflitto per la supremazia e Tikal fu la potenza dominante nella regione. Al pari delle città greche dell’antichità o di quelle italiane nel Rinascimento, la supremazia andava mostrata attraverso l’architettura che qui raggiunge l’apogeo per proporzioni e ricchezza di dettagli. I palazzi signorili e del sovrano giungono a dimensioni grandiose, anche di tre piani, con ambienti interni abbastanza angusti ma con vaste aree di colonnati. La scultura della roccia diventa più dettagliata e si arricchisce di particolari che fanno pensare ad un processo di barochizzazione, come negli angoli dei templi che si arrotondano in morbide curve. Tikal è ancora l’ultimo grande sito archeologico dove si può ancora salire liberamente sulle rovine e passeggiare in luoghi dove in passato solo una ristretta minoranza poteva accedere. Questo fatto di poter vedere dall’alto sia oltre la volta della foresta che immaginare come ai piedi di queste piramidi si stendesse una città con milioni di abitanti, rende l’esperienza della visita di Tikal unica in tutto il Centro America e Messico meridionale.
A dire il vero, lo sforzo di immaginazione per vedersi davanti agli occhi semichiusi la metropoli nella sua vita quotidiana, non è particolarmente difficile perché normalmente si incontrano i Maya, che vivono in villaggi con lo stesso tipo di case di quando erano i soli signori di queste contrade. I puri Maya non erano, e non lo sono ancora oggi, particolarmente alti di statura, difficilmente superano il metro e settanta degli uomini e meno delle donne. Con il mio metro e ottanta, passando tra i colonnati, dovevo tenere la testa bassa per non urtare gli architravi! Hanno dei tratti blandamente asiatici per il viso incredibilmente tondo e per la posizione e forma degli occhi appena a mandorla negli angoli esterni; anche il naso schiacciato, unito alla pelle particolarmente scura, li fanno sembrare ai filippini. Le abitazioni invece sono decisamente autoctone: capanne al suolo, anche vastissime, dalla forma ellittica allungata con le mura esterne composte di tronchetti di legno tondi di non più di una decina di centimetri strettamente affiancati l’uno all’altro e stuccati internamente per chiudere gli spazzi. Il tetto è particolarmente slanciato e spiovente con finestrelle triangolari alla sommità per permettere una abbondante aerazione. È fatto di foglie della palma detta della “balsa barbuta”, simile a quella utilizzata per il medesimo lavoro nel Sud-est asiatico, e tenute insieme da un elaborato sistema di giunchi di ratán intrecciati che si adattano perfettamente a creare le curve di due lati del perimetro.
Nelle settimane successive sono stato a vedere anche le rovine di Palenque (la grande rivale di Tikal), Chichen Itza e Tulum che sono ad un livello di restauro con la tecnica dell’anastilosis molto più avanzato, che se da un lato ci rendono chiaro come era l’edifico completo, dall’altro ci tolgono la possibilità di fantasticare con l’immaginazione come avrebbe potuto essere. Ogni polis aveva un suo distinto stile architettonico, che è facilmente riconoscibile da qualunque profano con un po’ di spirito d’osservazione e c’erano importanti centri religiosi, come Tulum, che ancora oggi posseggono una forte concentrazione di energia dell’universo e che talune persone riescono a percepire distintamente. Purtroppo non faccio parte di questa categoria di fortunati che può connettersi con il cosmo ma, campeggiando nei pressi delle rovine, ne ho incontrati vari che asserivano non solo di avvertire il flusso energetico planetario ma di potersene anche incanalare e ricaricarsi, un po’ come le batterie al lithium.
L’undici di marzo ho lasciato la Isla de Flores facendo rotta verso la frontiera messicana raggiungibile con la nazionale 5 per svoltare all’altezza di Las Libertad e imboccando lo sterrato che per 80 chilometri serpeggia attraverso la fitta giungla, interrotta solo dagli spiazzi dei villaggi Maya. Dopo due giorni pedalando molto lentamente e talvolta spingendo la bicicletta nella arena soffice, sono arrivato a Cooperativa Bethel sulle rive del fiume Usumacinta che marca il confine con lo stato messicano del Chapas. Qui non ci sono ponti e il fiume si attraversa su giunche talmente strette che sedendomi al centro potevo toccare l’acqua sui due lati con entrambe le mani. L’ultima notte in Guatemala l’ho trascorsa a Frontera Corozal dormendo in un padiglione diviso in camerate con sei letti a castello. Per cinque dollari ne ho presa una da solo mentre negli altri cameroni erano stipati una trentina di ragazzi che da vari Stati del Centro America migravano illegalmente chi in Messico chi negli USA. Da qui, la mattina dopo, sono stati caricati su pick up e portati a traghettare da qualche parte meno ufficiale di dove avrei fatto io qualche ora dopo. La sera sono rimasto a parlare con loro delle sicure fortune le li aspettano e che comunque era sempre meglio che restarsene a casa dove non c’era assolutamente niente di cui vivere. Sono i moderni schiavi del capitalismo mondiale, all’inseguimento dell’Eldorado industriale a cercare fortuna per se stessi ma soprattutto per i numerosi familiari lasciati a casa. Mi venne in mente la conversazione che ebbi con un signore a Livingston che asseriva che il 70% delle entrate della cittadina provenivano dalle rimesse degli emigrati. A Corozal una signora che gestiva un negozietto di alimenti, mi ha raccontato la storia macabro-triste di due ragazzi di quel villaggio che furono trovati morti chiusi all’interno di un camioncino che attraversava il deserto dell’Arizona e che, a seguito di un incidente, era rimasto capovolto per più di tre settimane prima di essere scoperto.
Ripassando dal Guatemala al Messico, si torna a viaggiare su strade sempre asfaltate e a un livello di vita molto più alto con una maggiore disponibilità di beni di consumo e di lusso, anche qui in Chapas, uno degli Stati messicani meno sviluppati. Oramai gli Stati Uniti del Messico fanno parte dei paesi del MINT (Messico, Indonesia, Nigeria e Turchia) che dopo quelli del BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) saranno le prossime potenze economiche. Certamente il fatto di trovarsi alle frontiere del più grande mercato al mondo è indiscutibilmente un vantaggio geografico e logistico, sempre concesso che gli USA continueranno ad esserlo nei prossimi 50 anni.
Seguendo principalmente le nazionali 199 e 186, ho riguadagnato il nord della penisola dello Yucatan via Palenque e Campeche, raggiungendo Mérida il 26 di marzo. La città ha una disposizione topografica a griglia, tipica del colonialismo spagnolo, che come una rete intrappola un gran numero di piccoli gioielli architettonici e urbanistici, come palazzi con ampie arcate e larghi cortili interni, oppure pittoresche piazzette che si aprono su stradine anguste. Come in molti paesi cattolici, la parte da leone delle gemme architettoniche la fanno le chiese che qui a Mérida le più antiche risalgono al XVI secolo. Ma il primato per l’interesse sia architettonico che antropologico è il vasto mercato che si estende per diversi blocchi di edifici e con al cuore l’immenso padiglione degli inizi del 1900 che contiene ogni mercanzia della regione. La gente che si affolla intorno alle bancarelle è della più varia: donne maya che basse e tozze, nei loro abiti di immacolato cotone bianco dai variopinti ricami floreali intorno al collo e gli orli, comprano o vendono frutta e versura; meticci con i tipici baffoni intorno gli angoli della bocca e cappello di paglia che mangiano tacos ai banchi; coppie di Menoniti dalla pelle chiarissima e gli occhi azzurri, con l’uomo in salopette scura e camicia bianca e la donna vestita come in una cartolina di fine ottocento con i capelli coperti da una cuffia, comprano attrezzi agricoli e scarpe; gruppetti di grassi gringos che spaesati si aggirano tra le bancarelle facendo commenti di meraviglia e incredulità come se si trovassero veramente in un altro pianeta.
Da Mérida mi sono rimesso in marcia verso Cancun, seguendo la nazionale 180 e il 29 maggio ho trascorso la notte a Yokdzonot accampando sull’orlo di uno dei migliaia di Cenote, che fanno sembrare quest’area dello Yucatan una gruviera di roccia calcarea. Praticamente, i Cenote sono delle voluminose grotte verticali nel terreno, dalla forma circolare, di decine di metri di diametro e profondi altrettanto, con acqua dolce al fondo, parte di un dedalo di fiumi sotterranei che percorrono tutta la regione. Quello dove mi sono fermato aveva un facile accesso all’acqua a sette o otto metri dal livello del suolo e ho nuotato nelle sue acque freddissime. C’erano le radici di due grossi ficus che dall’alto svendevano raggiungendo l’acqua, le pareti circolari erano ricoperte di piante rampicanti e le rondini svolazzavano intono per raggiungere i nidi negli anfratti, come in una gabbia cilindrica tutta verde.
Dopo una breve e deludente visita al sito archeologico di Chichen Itza sono arrivato a Playa del Carmen dove sono stato ospite di Javier e Clara del ciclo-club Bicineta (www.facebook.com/bicinetamx)con cui sono andato a pedalare un paio di volte nella città. Il 9 aprile mi sono trasferito alla Embajada Mexicana de la Bicicleta (www.facebook.com/pages/Embajada-Mexicana-De-La-Bicicleta/687967431254941), gestito da Ivan e Mitzi come un ostello che offre ospitalità gratuita ai cicloviaggiatori. Nei giorni seguenti ho partecipato al talk-show radiofonico di Linda, “Fuera de la cubeta” sulla seguitissima radio Pirata e sono stato intervistato dal maggior periodico a tiratura regionale, Novedades.
Così indaffarato ho aspettato il 13 aprile per l’arrivo della mia amica Christ che mi ha raggiunto in volo da Monterrey. Con lei avevo già trascorso tre settimane pedalando da Veracruz a Campeche nelle vacanze natalizie e visto che fa l’insegnante di yoga in una scuola, ha approfittato delle vacanze pasquali per raggiungermi e visitare lo Yucatan e il Quintana Roo, questa volta non in bicicletta ma facendo l’autostop. All’inizio l’idea mi aveva lasciato perplesso, durante i gli anni studenteschi avevo regolarmente utilizzato questa maniera per spostarmi ma oramai l’ultimo passaggio preso risaliva a un mitico, almeno allora mi pareva tale!, viaggio da Amsterdam a Siena nel 1996, qualche mese prima della laurea. Per Christ era un modo di placare e accontentare il suo spirito di hippy e far diventare questo viaggio una specie di piccola avventura. Di fatto si è rivelato un gran successo, abbiamo percorso più di 600 chilometri a passaggio andando a Chetumal e Tulun e dall’altra parte a Mérida e Puerto Progreso con una facilità estrema senza dover aspettare per più di un’ora a bordo strada. È stato anche interessante vedere che tipo di gente ci ha raccolto: da contadini su pick up, ad agenti di commercio e una coppia di una certa età su uno scassatissimo furgoncino Volkswagen degli anni settanta. Sono sempre i più umili ad essere i più generosi… Abbiamo quasi sempre campeggiato lungo la costa caraibica, su spiagge dalla sabbia fine e di un color crema tenue che tinge il mare di zaffiro chiaro, specialmente a Cancun che, nonostante sia un baraccone turistico, ha le seconde spiagge più belle che abbia mai visto, dopo quelle delle isole coralline delle Filippine che sono bianche immacolate come neve appena caduta.
Il 25 aprile la cara Christ è tornata dai sui studenti e io ho ripreso il mio letto nella Embajada aspettando di partire con il volo della Cubana Air che il quattro maggio mi porterà a La Habana. Così si conclude questo lungo capitolo di viaggio del Nord America cominciato 12 mesi fa tra i ghiacci dell’Alaska e terminato quasi all’Equatore attraverso gli interminabili boschi di conifere del Canada, le vibranti megalopoli della costa californiana, i deserti sabbiosi del Messico settentrionale e le giungle del Belize e Guatemala. Circa 15.000 chilometri di posti e paesaggi differenti, dove ho conosciuto persone interessantissime da cui ho imparato tantissimo. Un’umanità varia che si è adattata a vivere alle diverse latitudini e che rende questo pianeta ancora così variopinto e ricco di stranezze da scoprire.
Ho terminato di scrivere questa cronaca la mattina del primo di maggio, la Festa del Lavoro, e auguro buon festeggiamento a tutti i lavoratori e ai disoccupati di poter presto essere impiegati…
Alla prossima.
Matteo Tricarico
Se avete domande o curiosità lecite, sarò lieto di rispondervi. mt@matteot.com
Sito Ufficiale del progetto con informazioni, foto e video www.travelforaid.com. Cronache precedenti www.travelforaid.com/cronaca
CIAO MATTEO
TI SEGUO SEMPRE CON AMMIRAZIONE!!!SE POSSO FARE QUALCOSA DI UTILE FAMMI SAPERE
SALUTI
NICO COCCIA
Riuscire ad immaginare paesaggi ed eventi salgariani tramite un racconto odeporico così avvincente è un prezioso regalo all’anima. Alle nostre coordinate questi sono paesaggi così ameni che quasi sembra siano le sceneggiature di un film.
Il mondo ha tanto da offrire e spero che spinti da questi racconti i ragazzi della nuova generazione sappiano apprezzarne l’importanza della diversità e dell’unicità.
Le parole che ho letto sanno di integrazione, di rispetto e di amore per ogni cultura ogni forma di vita e stile di vita.
Sono valori e sentimenti che spesso mi trovo a dover escludere tra le motivazioni che spingono alcune azioni compiute, modi di vivere, modi di pensare e perfino nel legiferare della nostra tanto decantata civiltà.
Parlo della cultura eruopea ma anche italiana e più localmente della cultura che aleggia a Manfredonia.
Concludo dicendo che oggi si è persa un’altra cultura importante, quella dell’eroe, quello che compie grandi opere che ispirano le generazioni future.
Oggi, gli eroi hanno troppo spesso una palla tra piedi e spesso e non hanno la testa sulle spalle.
Per me Matteo rappresenta l’eroe portatore di quei valori a cui bisognerebbe ispirarsi.
In bocca al lupo, un viaggio, e che Dio, il Karma o semplicemente la fortuna sia con te.
Ad maiora
G.Iaco.